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AFORISMA GIORNALIERO

PENSIERI, RIFLESSIONI E AFORISMI...

domenica 1 marzo 2015

LUISA MONCADA
Una Grande Donna del Rinascimento Siciliano

La Luna di Bivona: una brillante manager nella Sicilia rinascimentaledi Enrica Antognelli

Ho conosciuto la storia di Luisa Moncada negli anni ’90, in occasione di un soggiorno in Sicilia per la realizzazione di un programma televisivo sulla dominazione araba nell’isola.

Fu un caso. Arrivai a Caltanissetta di notte e percorrendo le vie del centro fui catturata dalla mole di un palazzo maestoso e cadente al contempo, “cariato“, come qualcuno l‘ha giustamente definito.


L’immagine di quel palazzo di tufo, incompiuto e coperto di muschi, con quegli aggetti imponenti e sgretolati, mi rimase nella mente tutta la notte.

Il giorno seguente chiesi informazioni alla nostra consulente storica, la Professoressa Rosanna Zaffuto Rovello e destino volle che fosse una delle massime studiose della famiglia Moncada, cui la dimora era appartenuta. Mi fece dono di una pubblicazione: “Signori e corti nel cuore della Sicilia”, che divorai, restando per sempre affascinata dalla grandezza di Luisa.

 Luisa è un’eccezione alla regola che vuole le donne sottomesse alla volontà dell’uomo, rassegnate al destino di una vita domestica.

Luisa resse con fermezza le redini del feudo di Caltanissetta e sotto la sua guida sapiente la famiglia Moncada divenne la più potente e ricca della Sicilia.

Fu, usando un termine contemporaneo, una brillante manager, dotata di un infallibile talento per gli affari.

Un genio forse ereditato da Giovanni di Bicci, da Cosimo il Vecchio?

E già, perché va detto che Luisa discende, per linea paterna, dalla dinastia medicea.

La primogenita di Lorenzo il Magnifico, Lucrezia, andò in sposa a Jacopo Salviati, la coppia ebbe ben dieci figli, la settima dei quali, Luisa, per intercessione del cugino, Papa Leone X, fu unita in matrimonio a Don Sigismondo de Luna y Peralta: il nonno della nostra Luisa.

Sorvoliamo sulle sanguinose vicende di cui si rese protagonista Don Sigismondo, che fu privato dei beni e condannato a morte, diciamo che il suo primogenito, Don Pedro De Luna Peralta e Medici Salviati, Duca di Bivona, completamente riabilitato, (fu il primo nobile siciliano a ottenere il titolo di Duca), sposò Donna Isabella de Vega y Osorio, la figlia del Viceré di Sicilia Juan de la Vega y Enriquez. Dal matrimonio nacquero quatto figli, tre femmine, Luisa, Bianca ed Eleonora e un unico maschio che morì prematuramente.

I nonni materni di Luisa, il Viceré e Donna Eleonora, ebbero un ruolo cruciale nella diffusione dei Gesuiti in Sicilia. Profondamente legati a Ignazio di Loyola, elessero Messina, nel 1547 capitale provvisoria, a centro culturale da cui far nascere una nuova classe dirigente.

Presero accordi con il Senato cittadino affinché cedesse alla Compagnia la Chiesa di San Nicolò dei Gentiluomini e autorizzasse la fondazione del Collegio, primo al mondo e per tanto detto “Primum ac Prototypum Collegium”, edificato a partire dal 1548, con l’obiettivo di svolgervi un pubblico insegnamento.

Dalle città costiere, che con i loro porti erano le più esposte alla circolazione di pensieri, costumi e possibili eresie, i collegi gesuitici si estesero non solo in tutti i maggiori centri dell’isola, ma raggiunsero gli angoli più remoti del mondo.

Fu quindi il nonno di Luisa che contribuì a porre le basi di quella che diventerà la più poderosa organizzazione economica e politica della Chiesa.La madre di Luisa, Donna Isabella, continuò l’opera di sostegno alla Compagnia già intrapresa dalla famiglia, scelse il futuro Santo come padre spirituale, vi intrattenne un’intensa corrispondenza e lo pregò, nonostante le piccole dimensioni della città di Bivona, di istituirvi un Collegio che fu edificato a partire dal 1554.Aloisia, Luisa, de Luna y Vega nacque dunque a Bivona nel 1553, crebbe nell’intenso clima di rinnovamento culturale, religioso e artistico che accompagnò la Riforma Cattolica maturata nel Concilio Tridentino.

La sua famiglia ebbe importanti incarichi nel contrastare le invasioni ottomane, governò città ricchissime di storia, suo nonno ne fondò di nuove, come Carlentini, in onore all’imperatore Carlo V.

Nel 1563 il padre di Luisa, rimasto vedovo, sposò Donna Angela de la Cerda, figlia di Don Juan de la Cerda y de Silva, quarto duca di Medina Celi, nuovo Viceré di Sicilia. Nacque un solo figlio, Giovanni Giuseppe, che ereditò il titolo di Duca e i feudi, ma non ebbe figli e quindi, nel 1584, scelse di cedere le proprietà alla sorellastra Luisa, riservandosi l’usufrutto.

 Non ho mai visto un’immagine di Luisa, non so se fu gracile o forte, se fu scura e vellutata come le donne mediterranee o evanescente e chiara come la bisnonna Lucrezia, ritratta bambina dal Botticelli, non so a quale degli illustrissimi avi si ispirò la natura per darle sembianze.

Certo era poco più di una bambina quando andò in sposa a Don Cesare Moncada e Pignatelli, secondo Principe di Paternò, Conte di Adernò, Conte di Caltanissetta, Barone delle 164 onze annuali sopra i caricatori del Regno ecc. ecc. ecc.

Per Don Cesare era stata individuata un’altra sposa: la cugina Giovanna de Marinis, primogenita di sua zia Stefania. Ma il Viceré Don Juan de la Cerda, il nonno acquisito di Luisa, si oppose alle nozze e fu forse in quel frangente che meditò l’unione tra Luisa e il figlio del Principe di Paternò.

I matrimoni costituivano una strategia di pubblico interesse, dalla quale dipendevano alleanze, ricchezze, potere e i delicati equilibri tra i casati.

Necessitavano dell’approvazione del Viceré, nonché di una dispensa papale nel caso di parentele inferiori al settimo grado.

Era il caso di Luisa e Cesare, parenti di terzo e quarto grado.

Pio V concesse la dispensa, “…attesta il Santo Padre di sciorre l’impedimento, per non trovarsi nella Sicilia altri Signori di pari conditione, e perché nell’unirli co’l sacro nodo, venivano à stringersi i vincoli dell’antica amicitia, che allentati si erano litigando…”.

 La famiglia Moncada, di origine catalana, doveva la sua fortuna in Sicilia soprattutto a Guglielmo Raimondo III Moncada, che nelle lotte per la successione di Federico il Semplice, con spregiudicatezza e la segreta complicità di Pietro IV, il 23 gennaio 1392, ne rapì la figlia Maria dal castello Catanese di Ursino.

Guglielmo Raimondo era contrario alle strategie della “fazione latina” che voleva unire l’erede al trono di Trinacria con il Duca di Milano Gian Galeazzo Visconti. Raimondo tenne la giovane segregata per circa due anni finché, condotta a Barcellona, venne unita in matrimonio a Martino il giovane, nipote di Pietro IV.

Guglielmo Raimondo che, con il rapimento aveva consentito alla Corona aragonese di mantenere il potere sulla Sicilia, fu ricompensato con i beni sequestrati agli avversari e con la nomina a Regio Consigliere e Gran Giustiziere del Regno di Sicilia.

Ebbe il feudo di Paternò per il quale, secoli dopo, con privilegio dell’8 aprile 1565, i Signori Moncada si poterono fregiare del titolo di Principi.Nel 1407 Martino I e Matteo Moncada, erede di Guglielmo Raimondo III, si scambiarono la Signoria di Augusta e il territorio di Caltanissetta, città che era diventata demaniale.

Per i Moncada fu una fortuna immensa perché Augusta, porto marittimo, era costantemente esposta al pericolo delle invasioni barbaresche, che comportavano ingenti investimenti difensivi, mentre Caltanissetta, nel cuore della Sicilia, era difesa naturalmente.

Era inoltre circondata da terra fertilissima, la migliore per la coltivazione dei cereali e ricca di giacimenti di zolfo.

I Moncada vi esercitarono il dominio feudale per quattrocento anni, estesero la città, la dotarono di un ponte per facilitare il trasporto degli zolfi, avviarono l’edificazione di ospedali, conventi, chiese, estesero la coltivazione cerealicola, vi favorirono lo sviluppo artigianale, commerciale, e delle arti.

 Non sappiamo se Luisa accolse con trepidazione la notizia delle nozze, se l’accettò rassegnata o si mostrò riottosa, come sua madre Donna Isabella, che di sposare Don Pedro proprio non ne voleva sapere ed espresse la volontà di chiudersi in convento.

Ci volle addirittura l’intervento di Ignazio di Loyola per ricondurla al vincolo della sottomissione all’autorità paterna. Il della Lengueglia, il biografo di famiglia, ci dice che il matrimonio di Luisa e Cesare fu una cerimonia solennissima.

Si svolse a Caltabellotta, a celebrare fu l’ultraottantenne Monsignor Luigi Suppa, Vescovo di Agrigento, domenicano catanese, che si era distinto nell’applicazione dei decreti Tridentini, “…che al Sole di Paternò, la Bivonese Luna fosse congiunta…”.

 Non mi è certo quanti anni avesse Don Cesare, la maggior parte delle fonti dicono che nacque nel 1530, doveva avere quindi trentasette anni quando si sposò, ma il della Lengueglia ci dice che morì appena trentenne.

Si può quindi supporre che sia nato intorno al 1540 e arrivò al matrimonio più o meno ventisettenne.

E nel 1571 era già morto. Durò così poco il sontuoso matrimonio di Donna Luisa. Qui la storia si fa davvero pasticciata.

In questo breve tempo nacque una bambina, Isabella che morì prestissimo e “risparmiò così ai materni scrigni la dote, perché poi servisse a dotare molte povere donzelle”, ma Francesco, futuro Principe di Paternò, quando nacque? Alcuni dicono che venne alla luce il 13 marzo del 1572, altri nel 1570, altri ancora nel 1568.

Don Cerare morì nel luglio del 1571. Se è vero che Francesco nacque nel marzo del 1572, vuol dire che al momento dell’immane tragedia Donna Luisa era in dolce attesa da poche settimane, vedova e senza eredi maschi, con lo scotto, inoltre, dei due figli naturali già avuti dal defunto marito.

Tutto era dunque perduto, il titolo sarebbe passato a suo cognato, Don Fabrizio Moncada che di lì a poco, per volontà del Re Filippo II, avrebbe sposato per procura un’altra donna straordinaria, la pittrice Sofonisba Anguissola, ritrattista così talentuosa da essere considerata dal Van Dyck la sua miglior maestra.

E lei, Donna Luisa, cosa avrebbe fatto?Non sappiamo cosa accadde in quei lunghi mesi di lacrime, ma al lugubre susseguirsi delle cerimonie funebri, dovette subentrare, pian piano, la gioia.

Don Cesare quindi non se ne era andato per sempre, non era evaporato nella torrida calura estiva, la febbre non lo aveva portato via senza lasciare traccia.

La bivonese Luna usciva dalla fase calante e presto avrebbe nuovamente rischiarato con i suoi bagliori Caltanissetta e il suo incantevole vallone. Non era però dato sapere se si trattasse di un’altra bambina o del prezioso erede.

La vita volle che Donna Luisa vincesse la scommessa, nacque dunque il piccolo Francesco, futuro Principe di Paternò.

Il Principe doveva ora vivere e crescere, al resto avrebbe pensato sua madre.E’ in questo frangente così duro, che questa giovane donna, vedova e già madre di una bimba morta si mostra degna di essere ricordata tra gli Heroi Moncadi.

E’ qui che si forgia la Duchessa Donna Luisa Moncada, che chiese e ottenne, per decreto della Regia Corte, l’educazione del figlio e l’amministrazione degli Stati feudali, dapprima insieme al padre e poi da sola.Per sei anni Donna Luisa rimase sola, e furono molti, come dice il della Lengueglia, i nobili d’Italia e di Spagna che fecero a gara per ridare gioia alla sua bellezza. Non ci pensò.

Era occupata a far crescere figlio e ricchezze. Poi attuò il suo capolavoro: individuò la possibilità di contrarre un nuovo vantaggiosissimo matrimonio che le avrebbe dato non solo un marito ma anche una nuora di “sfoggiatissima dote”.

Progettò e attuò un doppio matrimonio per unire genitori e figli. Lei, Donna Luisa, avrebbe sposato Don Antonio d’Aragona - Cardona y Folch, quarto Duca di Montalto e Conte di Collesano, vedovo di Donna Maria de la Cerda e la figlia di lui, Maria d’Aragona y la Cerda, sarebbe stata promessa in sposa al Principe Francesco.

La dote della facoltosa giovinetta sarebbe così rimasta in casa. Un’opera di ingegneria capace di estendere in un sol colpo le ricchezze e i feudi di Casa Moncada, facendone la più potente famiglia della Sicilia, e con l’unica contropartita di anteporre al nome Moncada quello dei d’Aragona.

 Don Antonio non era un estraneo: la sua prima moglie, Donna Maria de la Cerda era sorella di Donna Angela de la Cerda, la matrigna di Luisa. Don Antonio era quindi uno zio acquisito e se Don Pedro fosse stato ancora vivo, avrebbe visto il cognato diventare genero.

Donna Luisa però non stipulò alcun accordo fintanto che non ottenne dal Viceré Marcantonio Colonna l’assicurazione di poter conservare la tutela del figlio e, per conto di esso, l’amministrazione degli Stati feudali. “Si assegnò una dote di 94.336 scudi, con l’obbligo per lo sposo di non dissiparla e restituirla in caso di morte o separazione”.

Le nozze, con signorile magnificenza, si svolsero a Monreale, celebrate dall’Arcivescovo Luigi Torres.

I ragazzi intanto crescevano e si educavano alle arti e alle lettere, circondati da una corte magnifica. Arrivarono anche altre due bambine, che però sopravvissero assai poco.

Il Palazzo Moncada era una città nella città, ci vivevano consiglieri, notai, contabili, dame e paggi, inservienti di ogni grado, artigiani, giardinieri, staffieri, stallieri, cuochi, ma anche musici, poeti, pittori e naturalmente schiavi.

Ogni giorno vi si consumava una quantità impressionante di cerali e farine.

Un esercito di lavoratori paragonabile a una nave da crociera.

Il tutto nelle salde, abilissime mani di Donna Luisa e dei suoi fidati consiglieri.Donna Luisa mise a rendita ogni feudo, vale a dire li affittò a stranieri, soprattutto genovesi e pisani che, in cambio della cifra annuale pattuita, la sollevavano da ogni incomodo, assumendosi i rischi dell’impresa.

Fece importare tessuti e aprire botteghe per venderli, attuò la ricerca di minerali, fu un’amministratrice brillante e coraggiosa che non disdegnò alcuna impresa, in netto contrasto con chi vuole una nobiltà dalle convinzioni inamovibili, poco meno che analfabeta, impermeabile a ogni novità.

Ma fu molto di più: esercitò sui suoi feudi il mero e misto imperio, ossia il potere politico, amministrativo, fiscale, militare e giudiziario, sia civile che penale.

 Fu sicuramente severa, come richiedeva il ruolo, affrontò, con scelte anche impopolari, periodi di carestia, attenta a non aggiungere maggior disgrazia ai suoi vassalli.

Ospitò a corte artisti e artigiani ai quali commissionò opere per abbellire il proprio Palazzo e quelli di amici e parenti, cui regalava generosamente.

Accolse nella sua casa i figli naturali di Don Cesare, Giovanni e Francesco, entrambi Cavalieri di Malta.

Ebbe l’onore, assieme alle altre consorti dei Grandi di Spagna, di sedere alla presenza della Regina al tempo di Filippo III e stupì, con gran sfoggio di magnificenza, il Viceré Bernardino Cardenas Duca di Maqueda, che fu suo ospite nel Palazzo di Caltanissetta e nel Bosco di Mimiano.

 Il Viceré, nelle sue memorie, racconta che le due corti si spostarono per visitare il famoso bosco e vi trovarono, oltre alla gran varietà di selvaggina, un allestimento così straordinario da avere tutte le comodità del Palazzo.

Le tele cerate facevano da tetto, le sete da pareti, i tappeti da pavimento, all'interno delle tende arredi di ogni sorta, morbidi letti e agiate mense.

Al termine del soggiorno Donna Luisa fece dono alla Viceregina di una scheggia della Sacra Croce racchiusa in un reliquiario coperto di preziose pietre.

Ogni anno la Duchessa inviava ai Ministri del Regno i migliori regali: cavalli allevati nelle sue tenute, pitture e sculture realizzate dagli artisti di corte, eccellenti argenterie, farmaci elaborati nelle officine del Palazzo.

Questi doni preziosi le consentivano di tessere quelle utili relazioni cui ricorreva in caso di bisogno, sia per sé che per le cause che le stavano a cuore, “co’l nobilissimo intento di farsi autorevole con quegli, che possedevano autorità, e da foriere si ben veduto, come fù sempre il regalo, farsi aprire la strada alla protettione de’ miseri, affrettarne in loro prò le sentenze, ò temperare i rigori de’ tribunali.”

Il matrimonio con Don Antonio durò fino al 1583, quando Donna Luisa rimase vedova per la seconda volta.

E’ davvero difficile dire se amò quel marito illustre e valoroso che aveva dato prova di coraggio in battaglia e ricoperto le più alte cariche del Regno di Napoli.

Certo quel giorno la tragedia si abbatté sulla giovane Maria.

Per restituire alla futura suocera la cospicua dote dovette vendere un feudo e finì per indebitarsi per tutta la vita. Non fu felice né fortunata Donna Maria.

Se Donna Luisa è un altorilievo di pregiati marmi policromi, Donna Maria è appena un’ombra che attraversa, trasparente come l’aria, i saloni di Palazzo Moncada.

Ci fu, inaspettatamente, un fatto davvero spinoso.

Il Viceré Marcantonio Colonna, che in un primo momento aveva accolto favorevolmente il progetto matrimoniale pensato da Donna Luisa per il figlio, dopo la morte di Don Antonio e forse per la necessità di riequilibrare l’influenza di casa Moncada, espresse contrarietà all’unione.

Ci volle tutto l’ingegno di Donna Luisa per divincolarsi da tale pericolo e uscirne vincente.Fece chiudere Maria nel monastero di Santa Chiara a Palermo, dove rimase fino al 1585 quando uscì per sposare Don Francesco. Lui aveva tredici anni, lei quindici.

Erano bambini ma poco importava. Don Francesco in virtù del matrimonio divenne maggiorenne e fu investito dei titoli e di una gran quantità di feudi ma, come la sua consorte, non doveva far altro che delegare tutto a Donna Luisa, e lasciar scorrere il tempo nei piaceri della corte, tra musica, studio, battute di caccia e componimenti poetici.

Il della Lengueglia ci ricorda infatti che il Principe fu ottimo musicista, raffinato poeta, bravo oratore, si cimentò nella scultura e nella pittura, studiò legge e matematica, riservò per sé le cause dei poveri, alle quali si dedicò con profondo impegno, a volte rinunciando persino a cibarsi per poterne ascoltare i memoriali.

 Don Francesco e Donna Maria si somigliavano nei modi e nell’educazione, anche lei amava le arti e si distingueva in opere di carità, servendo a tavola i poveri più volte l’anno.

Nei dieci anni di matrimonio ebbero cinque figli, tre maschi: Giovanni, Antonio, e Cesare e due femmine: Isabella e Luisa.

 Il Principe Don Francesco, in piena sintonia con la madre, fu molto attivo nel far progredire la città, fece edificare l’ospedale de’ Frati ben Fratelli, dotandolo di religiosi e farmaci, così che ne risultasse curato non solo il fisico ma anche lo spirito.

Promosse l’arrivo a Caltanissetta dei Cappuccini e, ma questo lo si deve più probabilmente a Donna Luisa, introdusse la Compagnia di Gesù.

Fece costruire nel bosco di Mimiano “alberghi” capaci di accogliere tutta la corte per le battute di caccia e nel 1588 prese in affitto in Palermo, per un canone di 390 onze annue, il magnifico Palazzo di Ajutamichristo, che successivamente acquistò per ampliarlo e renderlo ancora più maestoso nei decori, dimostrando così anche doti di architetto. Il Palazzo divenne un cenacolo culturale, dove il Principe ospitava letterati e musicisti.

Ma Francesco celava anche inaspettate capacità militari, che sfoggiò in occasione della grande carestia del 1591, quando la Sicilia si trovò esposta al pericolo di attacchi turchi. Il Viceré Diego Enriquez Guzman nominò il Principe Capitano Generale.

Don Francesco in vista dell’impresa militare spese di suo ventimila scudi per dotare i soldati di armi e ornamenti.

Fortunatamente l’invasione ottomana non ci fu, ma il Principe ebbe comunque modo di dimostrare il suo valore nella lotta contro ladri e briganti che infestavano i boschi. Fu proprio durante una di queste imprese che si ammalò.

Si trovava nella città di Paternò, quando fu colpito da gravissime febbri.

La notizia si sparse velocemente e subito Donna Luisa e Donna Maria, accompagnate da numeroso seguito, si misero in viaggio lungo le impervie mulattiere per raggiungerlo.

Arrivarono però giusto in tempo per raccoglierne gli ultimi respiri. Don Francesco aveva ventitré anni.

Tutto era stato programmato affinché avesse una vita solida e sicura.

Ma ancora una volta il dolore si abbatteva su casa Moncada.

L’impressione fu enorme, come la partecipazione di popolo.

Il corteo ripartì da Paternò per portare la salma a Caltanissetta, ma la grave notizia arrivò ben prima e lungo la strada le genti si univano alla processione, le donne gridavano graffiandosi il viso, “non sembrava fosse morto solo un uomo ma che un intero popolo fosse stato trucidato dai barbari”.

Donna Luisa e Donna Maria si chiusero nel Palazzo, Donna Maria per tre anni non uscì dalle sue stanze, serrò le tende per non vedere più la luce del sole, non si risposò mai e mai smise gli abiti di vedova, consumò i suoi giorni afflitta da ristrettezze economiche, senza neppur riuscire a pagare la servitù. Donna Luisa portò il lutto per tredici anni, anche lei non smise mai gli abiti neri.

Le Duchesse chiesero e ottennero l’autorizzazione per costruire un passaggio sopraelevato sul fianco della Chiesa dell’Annunziata, che permettesse loro di assistere alle funzioni religiose senza uscire di casa. Donna Maria fece erigere, a perenne memoria del marito, il convento benedettino di Santa Flavia affinché vi si celebrasse ogni giorno una messa a lui dedicata.

Quando il piccolo Antonio, futuro Principe di Paternò, non aveva ancora compiuto dieci anni, un’ulteriore tragedia rischiò di abbattersi sulla Casa.

Il bimbo si trovava in giardino dove giocava con il fratellino Cesare e correndo precipitò in un pozzo cisterna. Le grida richiamarono l’attenzione di tutti.

Per poco le Duchesse non svennero nel comprendere l’accaduto, certamente pregarono che il bimbo fosse salvato. Subito un inserviente si gettò, ma non si udiva alcun grido.

Era quindi affogato? Tutti i presenti si aspettavano di veder riemergere l’uomo con in braccio il corpicino esanime. Intanto la voce dilagava in ogni angolo della città e un gran numero di persone si accalcava fuori del Palazzo per avere notizie della gran disgrazia. Il bimbo riemerse intatto, nessuna ferita, nessuno spavento.

La città tutta esplose in un fragoroso applauso.

La popolazione chiedeva lumi e un gran susseguirsi di voci discordanti faceva piangere alcuni e gridare lodi al Signore ad altri.

Non si accontentavano di sentirsi dire che il bambino stava bene, lo volevano vedere con i loro occhi, dovevano affacciarlo a una finestra! Fu quindi asciugato e rivestito ed esposto alla gioia del popolo come un trofeo.

Tutti gridarono gli evviva e ringraziarono il Signore, “…da una cisterna si estrasse il vero sentimento de’leali vassalli, che manifestarono quanto da dovero amassero il lor Signore… apparve all’hora à gli occhi de’ sudditi più, che bello mai, come l’acque fossero state à lui non di naufragio, ma di lavacro, esaltaron la sua bellezza”.

Donna Luisa, dopo la morte dell‘amato figlio, fece quello che aveva sempre fatto: continuò a tenere le redini degli Stati feudali, si occupò di far progredire il patrimonio di famiglia, ottenne la tutela dei nipoti e si dedicò soprattutto all’educazione del giovane Antonio che aveva ereditato il titolo di Principe. Era molto bello Antonio, pare che una volta, ancora giovinetto, vestì abiti femminili in una rappresentazione a Palazzo.

Tutti concordarono che eccedesse in bellezza sua zia Antonia d’Aragona, allora stimata come la più bella dama di tutto il Regno.

Ma fu quando aveva più o meno diciotto anni, e per ordine del Re Filippo III fu investito dell’Ordine del Toson d’oro, che Don Antonio, nella Cappella Reale di Palermo, gremita di Dame e Signori, fu ammirato come il più bel nobile di tutti i tempi. “Beata la sposa a cui toccherà”, dicevano.

In realtà, già da tempo Donna Luisa si era mossa, confermando il matrimonio tra il bel nipote e Giovanna de la Cerda y de la Cueva, figlia unica di Don Giovanni Luigi, sesto Duca di Medina Celi. Anche Giovanna non era un’estranea: il Duca di Medina Celi era cugino di primo grado di Donna Maria.

Il Duca, appagatissimo di un così vantaggioso matrimonio, pur vedovo non pensava a risposarsi, felice di accogliere il genero come il più perfetto dei figli. Ma il genero tardava ad arrivare in Spagna e il Duca, spazientito e ansioso di avere un erede maschio, decise alla fine di risposarsi con Donna Antonia de Toledo Davila e Colonna che gli diede un figlio maschio. Giovanna “cadde dall’alto posto di hereditiera”.

Fu un grave danno per i Moncada, le ricchezze di Casa Medinaceli erano immense, se fossero andati in Spagna prima, con Antonio ancora giovinetto, il Duca di Medina Celi ne avrebbe avuto tenerezza e non avrebbe desiderato altri eredi.

Ne sarebbero derivati moltissimi titoli e beni, un vero trionfo per nonna Luisa che ormai, come una moderna capitana d’industria, non si accontentava dei confini dell’isola ma voleva veder splendere il nome dei d’Aragona Moncada in terra di Spagna.

Il ritardo era stato motivato dalla difficoltà di organizzare un viaggio così complesso. Doveva spostarsi la numerosa famiglia e gran parte della corte ed era necessario delegare a mani fidate l’amministrazione dei feudi.

Donna Luisa voleva portare con sé Donna Maria, affinché potesse assistere al maritaggio del figlio, e le due nipotine, per le quali erano state stipulate unioni con casati altrettanto prestigiosi, in modo da triplicare il fasto dei Moncada.

Le spese per il soggiorno, la navigazione fino in Spagna sulla flotta del Marchese di Santa Croce e il trasferimento fino a Madrid furono ingentissime. Donna Giovanna non portava più allo sposo l’eredità di Casa Medina Celi ma solo una dote adeguata al suo rango.

Don Antonio però non dimostrò interesse al denaro e apprezzò la bellezza e gentilezza della sposa. Purtroppo Donna Maria morì prima di raggiungere Madrid.

Come dice il della Lengueglia, il destino della sua vita, tanto serrata nel dolore per la perdita del marito, preferì che lo raggiungesse in cielo piuttosto che farle indossare abiti da festa.

Nel periodo in cui rimasero in Spagna Don Antonio e Donna Giovanna ebbero un primogenito maschio e si misero in viaggio per il ritorno in Sicilia quando lei era nuovamente in gravidanza.

 In pochi anni ebbero sei figli maschi e una femmina.

La discendenza era quindi assicurata quando a Palermo, dove si trovava la famiglia, scoppiò un’epidemia.

Ripararono subito a Collesano, dove la peste non era arrivata, ma Don Antonio aveva subito il contagio.

Sembrava che le medicine non potessero nulla contro le febbri e, ormai, non rimaneva altro che affidare la speranza ai voti.

Tutti i vassalli ne invocarono la salvezza e furono molti in tutta l’isola i monasteri beneficiati dalla sua generosità che gli dedicarono veglie di preghiera. Donna Giovanna più volte offrì la propria vita in cambio di quella del consorte. Ci fu pietà, ed entrambi furono risparmiati.

Don Antonio, ormai completamente sprofondato nella morte riemerse alla vita.

E qui il destino compie un colpo di scena inimmaginabile.

Don Antonio tornò in ottima salute ma non riuscì più a non pensare al senso di quella salvezza, a chiedersi se fosse stato scelto per ben più degne opere.

Intanto Donna Giovanna, che si era trovata così vicina alla condizione irreparabile di vedova, elaborava gli stessi pensieri.

Da bambina, colpita da grave malattia, era stata votata dalla madre a Santa Teresa d’Avila: non era forse giunto il momento di onorare quel voto?.

Don Antonio e Donna Giovanna si parlarono e convennero di ardere dello stesso desiderio di lasciare la vita terrena e rinascere a una nuova vita di preghiera.

Fu una scelta estremamente difficile, c’erano i bambini ed era necessario ottenere l’autorizzazione del Re e del Papa, i tempi erano lunghi, i passaggi difficoltosi.

Ma i due sposi, fermamente convinti della propria vocazione, riuscirono alla fine a ottenere il consenso di Filippo IV, anche grazie all’intercessione dell’Infanta Margherita d’Austria, alla quale Donna Giovanna aveva chiesto aiuto, inviandole una commovente missiva.

Ottenuto il consenso allo scioglimento del matrimonio e affrontata la dolorosa separazione dai figli, Don Antonio e Donna Giovanna partirono per Messina e da lì per Napoli, dove Donna Giovanna sarebbe entrata nel Convento di San Giuseppe e Don Antonio avrebbe contrattato con Padre Vitelleschi, Generale dei Gesuiti, il suo ingresso nell’Ordine.

Nel 1626 Donna Giovanna prese il nome di Suor Teresa dello Spirito Santo. Don Antonio si recò prima a Roma per ringraziare il Pontefice Urbano VIII e poi in pellegrinaggio alla Casa Santa di Loreto.

Tornato a Napoli fece la rinuncia degli Stati e dei titoli in favore del figlio Luigi Guglielmo e, dismessi gli abiti civili, si ritirò a Pozzuoli, dove il Vescovo gli conferì il Suddiaconato.

Tornò poi in Sicilia dove prese i restanti voti dall’Arcivescovo di Monreale.Celebrò la sua prima Messa nella Chiesa della Compagnia di Gesù in Palermo, gremita di dame e cavalieri giunti da tutta la Sicilia per la curiosità di vedere Don Antonio, così famoso per la sua bellezza in abiti da gala, nei nuovi abiti religiosi.

Comunicò con le sue stesse mani il figlio Luigi Guglielmo e, constatando quanto fosse bello riabbracciare i figli, maturò l’idea di far sorgere in Palermo un convento delle Carmelitane Scalze e farvi così venire da Napoli Donna Giovanna, ora Suor Teresa.

Ottenuta l’autorizzazione fece acquistare presso la Porta di Vicari un palazzo con giardino. Incaricò il figlio Luigi Guglielmo di farlo abbattere per costruirvi il convento, certo che l’ansia del giovinetto di riabbracciare la madre gli avrebbe fatto concludere i lavori in tempi celerissimi.

Giunta a Palermo Suor Teresa divenne Badessa del Convento della Vergine Assunta dove terminò i suoi giorni in preghiera. 

Don Antonio si spense in aprile, la notte di martedì santo, all’età di 46 anni. Era il 1631. Aveva chiesto al figlio di essere seppellito senza alcun fasto.

Fu un uomo generoso, gentile con la corte, rispettoso dei vassalli, aiutò chi aveva bisogno, fece numerosi doni a chiese e conventi, come la preziosa lampada della Madonna di Trapani, o il Tosone tutto ricoperto di brillanti che lasciò alla Sacra Casa di Loreto, quando rinunciò alle insegne dell’Ordine, “che con gli Ordini Sacri non facevano à suo credere buona lega”.

Intanto Donna Luisa si era spenta nel 1620 a 67 anni, che all’epoca non erano pochi.

Come il nome che portava, la sua vita fu una luna che alternò fasi nerissime ai più limpidi splendori.

Il destino le riservò grandi dolori, ma nulla piegò la sua vivida intelligenza.

Fu donna colta e volitiva, capace di imprimere alla sperduta e isolata Caltanissetta il segno di una corte rinascimentale che nulla aveva da invidiare alle ben più celebrate corti del nord Italia.

Nei secoli successivi gli interessi dei Moncada si spostarono sempre più verso Palermo e la Spagna, i lavori del palazzo, voluto ex novo da Luigi Guglielmo si interruppero bruscamente quando fu chiamato a ricoprire importanti incarichi alla corte di Madrid e non furono più terminati. Recentemente è stato restaurato e riconsegnato alla collettività, per la gloria dei Moncada e della Luna di Bivona.

Il FineSpero di aver fatto cosa gradita nel raccontare la storia di questa “donna virile”, come la definisce il della Lengueglia, e certo non si poteva trovare aggettivo migliore per descriverla, spero vivamente che questo modesto lavoro possa essere uno stimolo ad approfondire la storia di Casa Moncada.

E’ doveroso indicare che la storica Lina Scalisi, docente di Storia moderna e Storia mediterranea alla facoltà di Lingue e Letterature straniere dell'Università di Catania, è curatrice di un monumentale volume dal titolo “La Sicilia dei Moncada”, Domenico Sanfilippo Editore - Catania.

Scritto dalla Dott.ssa Enrica Antognelli


Fonti:Padre Agostino della Lengueglia, ““Ritratti della prosapia, et heroi Moncadi nella Sicilia, opera historica encomiastica”, Vol. I - Madrid Biblioteca di Filosofia e Lettere - consultabile su Google LibriRosanna Zaffuto Rovello, “Signori e corti nel cuore della Sicilia” - Fondazione Culturale “Salvatore Sciascia” Caltanissetta 1995

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