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giovedì 26 febbraio 2015

STORIA DEL SUD ITALIA DALL'ANNO MILLE
 - Seconda Parte -

La Storia del Nostro Sud italia è immensa e si viene sempre sommersi da nuove ed interessanti notizie su tutto ciò che i Nostri Avi hanno creato e conservato in nome della Tradizione Religiosa e Culturale.

Andiamo a leggerci queste interessanti notizie.

Spulciando nella storia delle Chiese del Sud Italia e si arriva a Catanzaro, ci si imbatte in una Chiesa molto particolare, che ha la prerogativa di poter essere considerata filiale della Basilica di San Giovanni in Laterano.



Nella Chiesa è conservato un quadro raffigurante la Vergine Maria, che proviene da Costaninopoli e che la tradizione vuole dipinto dal pennello di San Luca, sarebbe l'unica effige che rappresenta la vera immagine della Vergine, che tutto il mondo venera conosciuto come l'immagine di Maria Odegitria di Costantinopoli.

 La Chiesa in questione è dedicata a San Giovanni Battista, ma quella che la rende ancora più speciale è che fu la sede dove venne istituita una Arcinfraternita particolarissima e direi quasi unica nel suo genere.

Infatti proprio in questa Chiesa proprio il 28 Aprile del 1502 fu istituita la Reale Arciconfraternita dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista dei Cavalieri di Malta ad Honorem.

La sua filiazione diretta alla Cattedra Lateranense, ossia alla Chiesa madre di Roma ” Omnium Urbis et Orbis Ecclesiarum Mater et Caput” è sicuramente il suo vanto maggiore.

Risale infatti al 28 aprile 1502 la Costruzione su terreni dell’Arcibasilica Lateranense Romana ( e ciò che la rende filiale) del Tempio dedicato a San Giovanni.

Per la costruzione del Tempio vennero utilizzate le pietre squadrate del Castello dei Conti di Centelles, mentre le statue furono donate da fra Alfonso maria FERRARI, Cavaliere Gerosolimitano e Patrizio di Catanzaro.

Il primo Pontefice ad occuparsi di questo sodalizio fu Alessandro VI che concesse gli stessi privilegi e le stesse indulgenze della Basilica di San Giovanni in Laterano.

Il Pontefice ricordava altresì che, essendo la Chiesa sorta su suolo lateranense, la Confraternita poteva usare lo stemma dell’Arcibasilica: il Triregno con le Sacre Chiavi, dando facoltà di portare il Gonfalone Pontificio.

PIO IV poi, nel 1563, rese indipendente la Chiesa dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista dall’Autorità di Vescovi e Cardinali. 

GREGORIO XIII, il 24 maggio 1577, confermava ed ampliava le indulgenze e i privilegi, concessi fino ad allora dai suoi predecessori.CLEMENTE VIII riconfermo, nel 1601, l’autonomia dai Vescovi e Cardinali, già concessa dai suoi predecessori.

PAOLO V attribui alla Confraternita diritto di Asilo e Rifugio e disciplino i diritti di baronia, che consentivano al Priore, durante il periodo della Fiera di san Giovanni del 29 agosto di ogni anno, di amministrare la giustizia sotto la sua bandiera nel territorio (seppur limitato) della sua giurisdizione.

Sempre PAOLO V dava il privilegio singolarissimo di “Padre Sprituale della Chiesa e della Confraternita”URBANO VIII manifestava un segno di particolare predilezione per i figli calabresi donando loro con bolla del 4 aprile 1633 il braccio destro di San Giovanni Battista, purtroppo scomparso.

LEONE XII con Breve 22 agosto 1824 in occasione del suo Genetliaco riconfermava il diritto di Baronia.GREGORIO XVI, con Breve del 10 agosto 1845 riconfermava ed ampliava tutti i benefici sopra descritti.PIO XII con la lettera apostolica “Iam recolendae memoriae” del 9 novembre 1939 riconoscendo l’importanza storica concesse nuove indulgenze.

L’ultimo Pontefice ad occuparsi di questa Istituzione fu Papa Paolo VI in occasione dell’Anno Santo 1975 fece pervenire ai figli calabresi una Sua particolare e privata benedizione.

Dopo i riconoscimenti di Santa Romnqa Chiesa ci furono anche i riconoscimenti della Real Casa dei Borbone di Napoli come Sovrani del Regno delle Due Sicilie.

Il primo ad occuparsi della Confraternita fu Carlo III, nel 1673 infatti i Re di Napoli cominciarono ad interessarsi del sodalizio concedendo molti beni che fecero diventare la Confraternita una delle più ricche istituzioni di Catanzaro.

Il 28 novembre 1735, si deve registrare un evento straordinario, Carlo III Borbone di Spagna, Re di Napoli recandosi a Catanzaro in Visita (ospite dei marchesi DE RISO) conferì il titolo di “REALE ARCICONFRATERNITA DEI SS. GIOVANNI BATTISTA ED EVANGELISTA DEI CAVALIERI DI MALTA “ e a tutti i Confratelli “presenti e futuri” il titolo personale di “Cavalieri di Malta ad Honorem”.

Allo stemma della Confraternita venne aggiunta, per volontà regia, l’insegna della Croce di Malta.

Con questo decreto reale, vennero confermati anche i diritti di baronia da esercitarsi il giorno 29 agosto .S’impone ora una domanda.

In forza a quale prerogativa anche se regia il Re di Napoli e di Sicilia ebbe a concedere un si singolare privilegio?

L’ipotesi accreditata (anche dallo SMOM) è la seguente : il 24 ottobre 1530 Carlo V nella sua veste di Re di Spagna , diede l’isola di malta come feudo ai Cavalieri di san Giovanni di Gerusalemme, ma con la riserva dei diritti feudali al Regno di Spagna.

Cosi creava un vassallaggio che il Giovane Re di Napoli , Carlo III, secondogenito del Re di Spagna e pretendente al trono spagnolo, a distanza di oltre due secoli , rivendicava in virtù delle prerogative sancite dall’imperatore Carlo V.

La legittimità di questa Istituzione è pure riconosciuta dal Sovrano Militare Ordine di Malta, come scrive il Balì fra Antonio Conestabile della Staffa, nella Rivista Ufficiale dell’Ordine del dicembre 1942.

Di questo parere era pure il Gran Maestro dell’Ordine fra Angelo De Mojana di Cologna con suo scritto del 1975 dove riconoscendo il Carattere Nobiliare del privilegio ribadiva che “Comunque, è bene precisare che questo Titolo non ha nulla a che vedere con lo SMOM”.

Giova precisare che il 29 febbraio 1776 Ferdinando IV, confermando la deliberazione di Carlo III concedeva diritti di Baronia più vasti approvando altresì l’aggiunta della Croce Melitense al Triregno.

Con Regio Decreto, il 2 aprile 1857, Re Ferdinando II sanzionava il diritto di precedenza, imponendo, pena la revoca del privilegio di intervenire portando le insegne dei Cavalieri di malta ad Honorem nelle pubbliche funzioni del Corpus Domini e del Patrono della città San Vitaliano.

Nello svolgimento storico dell’Arciconfraternita, famosa e particolarmente interessante appare una sua antica caratteristica.

Si tratta del titolo di Barone o più precisamente (come citato sui testi in bibliografia) di Baroni della Real Cattedra Lateranense in Catanzaro, che i membri del Sodalizio possono usare.

Inoltre, la baronia dell’Arciconfraternita non appartiene ad un solo membro rappresentativo della Comunità Religiosa, ma all’intero consesso e quindi ad ogni singolo Confratello.

Il quale ha diritto di essere chiamato Barone e ti portare la corona nobiliare baronale, che non è quella personale ma quella a ricordo dell’effettiva, se pur limitata, giurisdizione anticamente goduta.

Per tanto, gli appartenenti alla Reale Arciconfraternita, fregiandosi del titolo di Cavaliere di malta ad Honorem, e di Nobile dei Baroni esercitano una prerogativa che spetta loro e che ha un fondamento storico inoppugnabile.

 Tale elargizione costituisce un unicum negli ordinamenti operando così una trasformazione relativamente alla natura giuridica dell’Arciconfraternita e divenendo così una istituzione religioso-cavalleresca-nobiliare.

Questo privilegio, con la facoltà di portare la croce bianca gerosolimitana, fu riconfermato dal Reale Decreto del 21 marzo 1777 da S.M. Re Ferdinando IV delle Due Siciliee l’8 dicembre del 1974 da S.M. Carlo X di Borbone.

E' bene ancora ricordare due momenti sul piano giuridico e religioso :

il primo con la lettera del Praefectus Ecclesiarum Unitarum Can. Mons de Toth del 3 novembre del 1986 in cui riafferma il diritto di proprietà del monastero catanzarese al Capitolo Lateranense e quindi della dipendenza della Reale Arciconfraternita;

il secondo è quanto affermato dal Sommo Pontefice Papa Innocenzo nel 1612 e riconfermato da numerosi successori , non ultimo papa Pio XII con la lettera apostolica del 1939 “Jam recolendae memoriae”, e riguarda le indulgenze che si ottengono entrando nel Sacro Tempio di Catanzaro, infatti così scriveva:

…Ut numerari non possint .. nisi solo Deo, quasomnesconfirmo, et etiam dixit Papa Bonifacius: Si homines scirent quot sunt indulgentiae in Ecclesia S. Joannis Lateranem et suismembris, a summis Romanis Pontificibus concessae, nequaquam opere pretium est proficisci ad Sepulchrum Hyerosolimitanum…”

martedì 24 febbraio 2015

CASTEL CAPUANO

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Castel Capuano è, dopo il Castel dell'Ovo, il più antico castello di Napoli.

Di origine normanna, è situato allo sbocco dell'attuale via dei Tribunali ed è sede della sezione civile del tribunale di Napoli.

Deve il suo nome al fatto di essere ubicato a ridosso di Porta Capuana, che si apre sulla strada che conduceva all'antica Capua.

La sua costruzione fu avviata nella metà del XII secolo per volere del re di Sicilia Guglielmo I detto il Malo, figlio di Ruggero il Normanno, e fu portata a termine nel 1160 dall'architetto Buono.

Dotato di robuste fortificazioni, Castel Capuano fu destinato subito alla funzione di residenza reale dei sovrani normanni, malgrado l'austerità degli ambienti e la sua vocazione naturale di presidio militare.

Scavi effettuati nel XIX secolo hanno dimostrato che il castello fu eretto sull'area in cui nella Napoli romana sorgeva il Gymnasium, trasformato nei secoli successivi in cimitero, come provano le numerose tombe rinvenute.

Nel 1231, per iniziativa di Federico II, si ebbe il primo intervento di trasformazione del castello, che pur conservando le sue indispensabili fortificazioni, fu reso più ospitale e meglio rispondente alla sua dignità di residenza reale.

Con l'avvento degli Angioini iniziò l'edificazione (1279-82) di una nuova fortezza, Castel Nuovo (o Maschio Angioino), che ereditò la funzione di dimora dei sovrani di Napoli.

Castel Capuano continuò ad ospitare fra le sue mura alcuni membri della famiglia reale nonché funzionari e altri illustri ospiti come Francesco Petrarca, che vi soggiornò nel 1370 in qualità di legato di Clemente VI.

Durante il regno di Giovanna I (1343-1382) il castello fu sottoposto a nuovi restauri, resi necessari dalle conseguenze del devastante saccheggio subìto ad opera delle truppe di Luigi I d'Ungheria, che furono poi costrette ad abbandonare la città per l'arrivo della peste nera.

Pur rimanendo in secondo piano rispetto alla maestosa sede della corte reale, l'imponente Maschio Angioino, il Castello Capuano fece da cornice a molti importanti eventi, come lo sfarzoso matrimonio di Carlo di Durazzo, che tanta impressione suscitò negli osservatori del tempo.

Fu proprio il figlio di Carlo, Ladislao il Magnanimo (1399-1414), a riprendere brevemente Castel Capuano come propria residenza, mentre sua sorella Giovanna II (1414-1435) fu costretta a rifugiarsi fra le sue mura durante lo scontro con Alfonso V d'Aragona, che aveva stabilito la propria corte in Castel Nuovo.

La fortezza subì in questo periodo l'assedio dell'Aragonese, che dovette però arrendersi di fronte all'inespugnabilità della residenza in cui Giovanna aveva trovato riparo.

Da qui, la sovrana partì poi alla volta di Aversa, dove nominò suo erede Luigi III d'Angiò in opposizione al ripudiato Alfonso.Sempre in Castel Capuano, il 23 agosto 1432 morì assassinato il favorito della regina Sergianni Caracciolo, mandato a morte dalla stessa sovrana.

Sotto il regno degli Aragonesi, Castel Capuano ebbe un ruolo sostanzialmente marginale, subendo di tanto in tanto qualche intervento di ristrutturazione degli ambienti interni e delle strutture esterne.

Nel 1517 vi furono festeggiate le nozze di Bona Sforza con Sigismondo re di Polonia e nel 1535 vi soggiornò Carlo V, che donò l'anno dopo il castello ad un suo cavaliere, Filippo di Lannoy, principe di Sulmona, quando questi sposò Isabella Colonna, il quale lo fece modificare e abbellire.

Solo con l'annessione del Regno di Napoli alla corona di Spagna e la sua costituzione in Vicereame (1503), Castel Capuano fu destinato per la prima volta alla funzione di palazzo di giustizia, rimasta fino a qualche anno fa.

Qui, infatti, il viceré don Pedro de Toledo riunì tutte le corti di giustizia sparse in diverse sedi in tutta la città: il Sacro Regio Collegio, la Regia Camera della Sommaria, la Gran Corte Civile e Criminale della Vicaria e il Tribunale della Zecca.

Per adattarlo alla nuova funzione, il castello fu trasformato nel 1537 dagli architetti Ferdinando Manlio e Giovanni Benincasa: furono eliminate tutte le strutture tipicamente militari e fu modificato nei suoi spazi interni, mentre i sotterranei furono destinati a prigione dotata di attrezzatissime camere di tortura.

Nella sua lunga storia, Castel Capuano ha subito numerosi interventi di trasformazione e restauro che ne hanno profondamente cambiato la fisionomia.

Già sotto Federico II furono rifatte le mura esterne, con l'apertura delle finte finestre della facciata principale.

Durante il regno di Alfonso d'Aragona furono affrescate alcune sale, prima dal catalano Baco e poi, sul finire del XV secolo, da Colantonio del Perrino.

Nel 1752, durante il periodo borbonico, furono eseguiti nuovi affreschi e l'intero complesso fu rimaneggiato nel 1857-58, perdendo ogni traccia dell'antico aspetto.

Quest'ultimo intervento apportò le modifiche più significative: fu rinnovata la facciata principale e i balconi furono ritrasformati in finestre, scomparvero le arcate dei pianterreno e fu costruito un marciapiede lungo tre lati.

Le decorazioni interne furono affidate al pittore Molinaro e al decoratore Perricci.

Dopo l'unità d'Italia sulla facciata esterna fu affisso lo scudo di Casa Savoia.

Nel corso dei restauri furono eseguiti presso le fondazioni del castello alcuni scavi, che portarono alla luce dei frammenti di iscrizioni lapidee che hanno confermato la presenza nei pressi dell'antico Gymnasium.

Da scavi effettuati nel 1913 sono emerse invece delle tombe con vasi in terracotta e lapidi con iscrizioni latine, che proverebbero il successivo adattamento dell'area alla funzione di cimitero.

Sul portale d'ingresso di Castel Capuano campeggia una lapide che celebra la vittoria di Carlo V a Tunisi e la data in cui il castello divenne sede della Corte di Giustizia. Il portale è poi sormontato da una grande aquila bicipite, stemma della casa reale di Spagna, opera del Sangallo, e da colonne d'Ercole binate col motto Plus ultra.

A un livello superiore domina lo stemma dei Savoia, affisso dopo l'Unità d'Italia in sostituzione di quello dei Borbone.

L'orologio della facciata risale invece al 1858.Superato il portale si accede ad un cortile circondato da un portico sostenuto da pilastri di ordine dorico.

Questo spazio rappresenta il nucleo del castello: è qui che si riunivano avvocati, giudici, imputati, testimoni e le folle di cittadini coinvolti nelle vicende giudiziarie o semplicemente curiosi.

Da qui si aprono le scalinate che conducono agli ambienti interni del castello.

Sul retro del Castello sorge infine la fontana detta del Formiello. Costruita nel 1490 come abbeveratoio per i cavalli, fu rifatta nel 1583 da Michele de Guido che vi appose gli stemmi del viceré Pedro d'Aragona.

La fontana fu chiamata così in quanto alimentata dalle acque dell'omonimo acquedotto.Fra le sale interne di Castel Capuano, una delle più interessanti è certamente il Salone della Corte d'Appello, con affreschi di Antonio Cacciapuoto e altri artisti, eseguiti alla fine del XVIII secolo.

Il ciclo raffigura allegorie delle province del regno: la provincia dei Marsi, dei Vestini, dei Picentini, degli Irpini, la Lucania, il Brutium Citerius e il Brutium Ulterius.

La sala dei Busti, situata al primo piano, ospita oggi i busti in marmo degli avvocati più famosi del foro di Napoli.

In precedenza era la sala dove si tenevano le udienze pubbliche della Camera della Sommaria. Considerato il cuore del castello, oggi vi si celebrano gli avvenimenti solenni e si convocano riunioni straordinarie.

Anche in questa sala gli affreschi ripropongono dodici figure femminili rappresentanti le province del regno: le figure poggiano su altrettanti piedistalli, intervallati fra loro da finte colonne.

Il soffitto fu affrescato da Biagio Molinari di Trani ed è diviso in tre campi, ciascuno dei quali celebra la forza ed il trionfo della Giustizia.Dalla sala dei Busti (o salone dei Busti) si accede alla cappella della Sommaria, una sala a pianta quadrata con pareti cieche realizzata verso la metà del Cinquecento.

La sala che oggi ospita la biblioteca fu sede del Gran Consiglio durante il regno degli Angioini, poi sala di udienza della Gran Corte Criminale nel periodo borbonico.

Qui furono processati anche i patrioti che parteciparono alla rivoluzione del 1848 contro Ferdinando II.

La Biblioteca, trasferita qui da ambienti adiacenti, fu inaugurata il 19 luglio 1896 ed ospita circa 80.000 volumi tra cui rarissime opere dei secoli XVI, XVII e XVIII che costituiscono nel loro insieme il cosiddetto Fondo Antico.

FONTE : WIKIPEDIA, http://www.icastelli.it/ con scheda compilata dal Dott. Andrea Orlando

lunedì 23 febbraio 2015

STORIA DEL SUD DALL'ANNO MILLE
 - Prima Parte -


L’Italia nell’anno 1000 si presentava come l’insieme di tanti Ducati e principati tra loro indipendenti sotto l’influenza dei Bizantini, del Papato e dell’Imperatore Germanico e la Sicilia sotto il totale dominio Arabo.

La prima unificazione di tutte queste terre dopo l’Impero Romano fu iniziata da Guerrieri venuti dal Nord, i Normanni.

Il primo insediamento normanno nel Mezzogiorno d’Italia, nel 1027 si deve al Condottiero Rainulfo Drengot, investito dal Duca di Napoli Sergio IV del titolo di Conti di Aversa in compenso dell’aiuto ricevuto nel conflitto con i Longobardi del Principato di Capua.

Nel giro di pochi anni si ebbe il rapido fiorire di Signorie Normanne.

Infatti il Conte Normanno Rainulfo Drengot chiamò nel Sud Italia per una maggiore forza militare, un’altra potente Famiglia Normanna, gli ALTAVILLA che furono poi i veri dominatori del Sud Italia.

Mentre i Drengot consolidavano i possedimenti di Aversa e di Capua, gli Altavilla divennero vassalli del Principe Guaimario IV di Salerno, che fu acclamato Duca di Puglia e Calabria da proprio i suoi vassalli Normanni.

In cambio Guaimario nominò conte di Melfi, Guglielmo Braccio di Ferro, capo della casa d’Altavilla.

Nel 1047 l’Imperatore Enrico III privò Guaimario del titolo ducale e consacrò il successore di Guglielmo, Drogone, alla guida del ducato col titolo di Dux et Magister Italiae Comesque Normannorum totius Apuliae et Calabriae ( Duce e Cavaliere d’Italia, Conte Normanno di tutta la Puglia e la Calabria), vassallo diretto della corona imperiale.Quindi i primi Conti di Puglia e Calabria furono i seguenti :

Guglielmo I Braccio di Ferro
1042 - 1046
Figlio di Tancredi D’Altavilla
Drogone
1046 - 1051
Fratello di Guglielmo I
Umfredo
1051 - 1057
Fratello di Drogone
Roberto il Guiscardo
1057 - 1059
Fratellastro di Umfredo

Agli inizi del 1059 la situazione politica era questa, mentre i Drengot consolidavano il Principato di Capua, gli Altavilla erano diventati Conti di Puglia e Calabria investiti dall’Imperatore Enrico III.

Ma nell’anno 1041 si ebbero due battaglie, quella di Olivento e quella di
Montepeloso e nel 1059 quella di Civitate e tutte e tre furono a favore dei Normanni che acquisirono sempre maggiore potere a scapito dei Principi Longobardi e Bizantini.

In special modo la battaglia di Civitate in cui i Drengot e gli Altavilla comandati da Umfredo d'Altavilla, Riccardo I di Aversa, Roberto il Guiscardo e Rainaldo Musca sconfissero il Papa Leone IX ed il Duca Gerardo di Lorena e Rodolfo Principe di Benevento, mettendo fine al famoso Principato ed allargando ulteriormente i loro domini.

I Normanni, vincitori della battaglia, avevano catturato papa Leone IX e il duca Gerardo di Lorena che furono imprigionati a Benevento. Mentre il duca fu rilasciato e ritornò in Lorena, i dettagli della sorte del pontefice appaiono meno certi.

A papa Leone, Roberto il Guiscardo e i suoi duchi normanni s'inchinavano in segno di umile sottomissione, con implorazioni per lo sgravio dalla pressione del suo interdetto e giuramenti di fedeltà e omaggio, mentre egli continuava ad essere loro prigioniero, benché gli indorassero la pillola dichiarandone la condizione: "onorabile cattività".

PRIMA PARTE

Il Papa restò a Benevento fino a marzo del 1054. La sua liberazione venne tuttavia subordinata al riconoscimento ufficiale delle due casate normanne, nonché alla ratifica formale delle conquiste realizzate dagli Altavilla e dai Drengot Quarrel.

Durante la prigionia, in particolare, Leone si vide costretto a riconoscere la
Contea di Puglia, assegnata al Guiscardo, e il Principato di Capua, confermato aRiccardo dei Drengot, con Giordano, suo figlio, nella Signoria di Gaeta.

Finalmente Leone raggiunse la capitale Melfi dove consacrò Umfredo e il Guiscardo vassalli della Chiesa, ch'essi s'impegnavano a proteggere nonché a recuperare la Regalia Sancti Petri in Puglia e Basilicata. La dipendenza feudale era rappresentata con il dono a Leone di una cavalla bianca.

Il Guiscardo, in cambio, offrì al papa la signoria su Benevento.

Leone fu forzato a togliere la scomunica ai Normanni; li perdonò e benedisse Umfredo I d'Altavilla, schieratosi al suo fianco per affrontare i comuni nemici: gli imperi di Bisanzio e della Germania.

Evidentemente i Capi Normanni lo avevano liberato solo a condizione che firmasse la pace e la concessione del perdono.

Dopo questi eventi al Papa non rimase altro che scendere a patti con i
nuovi Condottieri mentre l’Imperatore non diede molta importanza ai nuovi avvenimenti storici.

La nuova cartina storica venne disegnata con gli accordi del Trattato di Melfi divenuto poi Concordato in cui il papa investì ufficialmente entrambe le Casate Normanne del Titolo di Duca e Principe ed iniziò la vera Dominazione Normanna nel Sud Italia.

La nomina a Duchi avvenne nell’agosto del 1059 e questa data dovrebbe essere ricordata come l’inizio di uno nuova era del Sud Italia.
Infatti per la prima volta iniziava la sua unificazione da Benevento sino alla Sicilia.

IMITAZIONE DI CRISTO
Libro I - Capitolo I

Questo piccolo libro ha costituito per secoli un preciso punti di riferimento per la spiritualità cristiana, tanto che si può considerare "il libro più letto dopo il Vangelo, meditato nei monasteri, letto nella vita religiosa e sacerdotale, tenuto come manuale di formazione cristiana robusta per tante generazioni di laici, di cristiani nel mondo". L'Imitazione di Cristo, il cui autore resta sconosciuto, benché possa essere collocato in ambiente monastico attorno ai secoli XIII-XIV, costituisce un semplice e concreto tracciato di vita ascetica. La tensione spirituale che lo anima, ne fa un testo fondamentale nel tracciare una via alla ricerca di Dio, all'abbandono dell'"uomo vecchio" per costruire l'"uomo nuovo", per radicare interiormente una profonda spiritualità personale.

 Libro I 

 INCOMINCIANO LE ESORTAZIONI UTILI PER LA VITA DELLO SPIRITO


 Capitolo I

L'IMITAZIONE DI CRISTO E IL DISPREZZO DI TUTTE LE VANITA' DEL MONDO 

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PARAG. 1

"Chi segue me non cammina nelle tenebre" (Gv 8,12), dice il Signore. Sono parole di Cristo, le quali ci esortano ad imitare la sua vita e la sua condotta, se vogliamo essere veramente illuminati e liberati da ogni cecità interiore.

Dunque, la nostra massima preoccupazione sia quella di meditare sulla vita di Gesù Cristo. Già l'insegnamento di Cristo è eccellente, e supera quello di tutti i santi; e chi fosse forte nello spirito vi troverebbe una manna nascosta.

Ma accade che molta gente trae un ben scarso desiderio del Vangelo dall'averlo anche più volte ascoltato, perché è priva del senso di Cristo. Invece, chi vuole comprendere pienamente e gustare le parole di Cristo deve fare in modo che tutta la sua vita si modelli su Cristo.

Che ti serve saper discutere profondamente della Trinità, se non sei umile, e perciò alla Trinità tu dispiaci? Invero, non sono le profonde dissertazioni che fanno santo e giusto l'uomo; ma è la vita virtuosa che lo rende caro a Dio.

Preferisco sentire nel cuore la compunzione che saperla definire.
Senza l'amore per Dio e senza la sua grazia, a che ti gioverebbe una conoscenza esteriore di tutta la Bibbia e delle dottrine di tutti i filosofi? "Vanità delle vanità, tutto è vanità" (Qo 1,2), fuorché amare Dio e servire lui solo.

Questa è la massima sapienza: tendere ai regni celesti, disprezzando questo mondo.

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PARAG. 2


Vanità è dunque ricercare le ricchezze, destinate a finire, e porre in esse le
nostre speranze.

Vanità è pure ambire agli onori e montare in alta condizione. Vanità è seguire desideri carnali e aspirare a cose, per le quali si debba poi essere gravemente puniti.

Vanità è aspirare a vivere a lungo, e darsi poco pensiero di vivere bene. Vanità è occuparsi soltanto della vita presente e non guardare fin d'ora al futuro.

Vanità è amare ciò che passa con tutta rapidità e non affrettarsi là, dove dura eterna gioia.

Ricordati spesso di quel proverbio: "Non si sazia l'occhio di guardare, né mai l'orecchio è sazio di udire" (Qo 1,8).

Fa', dunque, che il tuo cuore sia distolto dall'amore delle cose visibili di quaggiù e che tu sia portato verso le cose di lassù, che non vediamo. Giacché chi va dietro ai propri sensi macchia la propria coscienza e perde la grazia di Dio.

sabato 21 febbraio 2015

CASTELL'OVO


Il castel dell'Ovo (castrum Ovi, in latino), è il castello più antico della città di Napoli ed è uno degli elementi che spiccano maggiormente nel celebre panorama del golfo.

Si trova tra i quartieri di San Ferdinando e Chiaia, di fronte alla zona di Mergellina.

Il suo nome deriva da un'antica leggenda secondo la quale il poeta latino Virgilio - che nel medioevo era considerato anche un mago - nascose nelle segrete dell'edificio un uovo che mantenesse in piedi l'intera fortezza.

La sua rottura avrebbe provocato non solo il crollo del castello, ma anche una serie di rovinose catastrofi alla città di Napoli.

Durante il XIV secolo, al tempo di Giovanna I, il castello subì ingenti danni a causa del crollo parziale dell'arco sul quale è poggiato e, per evitare che tra la popolazione si diffondesse il panico per le presunte future catastrofi che avrebbero colpito la città, la regina dovette giurare di aver sostituito l'uovo.

Il castello sorge sull'isolotto di tufo di Megaride (greco: Megaris), propaggine naturale del monte Echia, che era unito alla terraferma da un sottile istmo di roccia.

Questo è il luogo dove venne fondata Partenope nell'VIII secolo a.C., per mano cumana.

Durante il VI secolo a.C., nel sottostante pianoro sorse la nuova zona residenziale ("Neapolis").

La parte più antica della città fu chiamata "Palepolis" (città vecchia) e cadde in disuso nel IV-III secolo a.C.

Nel I secolo a.C. Lucio Licinio Lucullo acquisì nella zona un fondo assai vasto (che secondo alcune ipotesi andava da Pizzofalcone fino a Pozzuoli) e sull'isola costruì una splendida villa, Villa di Licinio Lucullo, che era dotata di una ricchissima biblioteca, di allevamenti di murene e di alberi di pesco importati dalla Persia, che per l'epoca erano una novità assieme ai ciliegi che il generale aveva fatto arrivare da Cerasunto.

La memoria di questa proprietà perdurò nel nome di Castrum Lucullanum che il sito mantenne fino all'età tardoromana.

In tempi più oscuri per l'Impero - metà del V secolo - la villa venne fortificata da Valentiniano III e le toccò la sorte di ospitare il deposto ultimo Imperatore di Roma, Romolo Augusto, nel 476.

Successivamente la morte di Romolo Augusto, sull'isolotto di Megaride e su monte Echia, già alla fine del V secolo, si insediarono monaci basiliani chiamati dalla Pannonia da una matrona Barbara con le reliquie dell'abate Severino.

Allocati inizialmente in celle sparse (dette "romitori basiliani"), i monaci adottarono nel VII secolo la regola benedettina e crearono un importante scriptorium (avendo probabilmente a disposizione anche quanto restava della biblioteca luculliana).

Il complesso conventuale venne però raso al suolo all'inizio del X secolo dai duchi di Napoli, per evitare che vi si fortificassero i Saraceni usandolo come base per l'invasione della città, mentre i monaci si ritiravano a Pizzofalcone.

Nell'872, sull'isolotto al tempo denominato di San Salvatore i Saraceni imprigionano il vescovo Atanasio di Napoli, ma lo sforzo congiunto delle flotte del Ducato di Napoli e della Repubblica di Amalfi permette di liberare il vescovo e scacciare i musulmani.

In un documento del 1128 nel sito viene nuovamente citata una fortificazione, denominata Arx Sancti Salvatoris dalla chiesa di San Pietro che vi avevano costruito i monaci.

Testimone dell'insediamento dei monaci basiliani è proprio quanto resta di questo luogo di culto, fondato dagli stessi monaci e le cui prime notizie risalgono al 1324. L'unico elemento architettonico di rilievo rimasto è l'ingresso preceduto dai grandi archi del loggiato.

Ruggiero il Normanno, conquistando Napoli nel 1140, fece di castel dell'Ovo la propria sede.

L'uso abitativo del castello tuttavia veniva sfruttato solo in poche occasioni dato che, con il completamento del Castel Capuano, furono spostate lì tutte le direttrici di sviluppo e di commercio verso terra.

Con i Normanni, iniziò un programma di fortificazione sistematica del sito, che ebbe nella torre Normandia il suo primo baluardo, ed era quella su cui sventolavano le bandiere.

Con il passaggio del regno agli Svevi attraverso Costanza d'Altavilla, castel dell'Ovo viene ulteriormente fortificato nel 1222 da Federico II, che ne fa la sede del tesoro reale e fa costruire altre torri - torre di Colleville, torre Maestra e torre di Mezzo. In quegli anni, il castello divenne reggia e prigione di stato.

Il re Carlo I d'Angiò spostò a Castel Nuovo (Maschio Angioino) la corte.

Mantenne tuttavia a castel dell'Ovo - che proprio in questo periodo comincia ad essere denominato chateau de l'Oeuf o castrum Ovi incantati - i beni da custodire nel luogo meglio fortificato: ne fece quindi la residenza della famiglia, apportandovi allo scopo numerosi restauri e modifiche, e vi mantenne il tesoro reale.

In questo periodo, in quanto prigione di stato, nel castello vi fu rinchiuso Corradino di Svevia prima di essere decapitato nella piazza del Mercato, e i figli di Manfredi e della regina Elena Ducas.

Dopo un evento sismico che nel 1370 aveva fatto crollare l'arco naturale che costituiva l'istmo, la regina Giovanna lo fece ricostruire in muratura, restaurando anche gli edifici normanni. Dopo avere abitato il castello come sovrana, la regina qui venne imprigionata dall’infedele nipote Carlo di Durazzo, prima di finire in esilio a Muro Lucano.

Alfonso V d'Aragona, iniziatore della dominazione aragonese a Napoli (1442 – 1503), apportò al castello ulteriori ristrutturazioni, arricchendo il palazzo reale, ripristinando il molo, potenziando le strutture difensive e abbassando le torri.

Successogli al trono il figlio Ferrante I, ricevuti saccheggiamenti dalle milizie francesi, egli per riappropriarsi del castello dovette bombardarlo con l’artiglieria.

Il castello fu ulteriormente danneggiato dai francesi di Luigi XII e dagli spagnoli di Consalvo de Cordova, che spodestarono per conto di Ferdinando II di Aragona, re di Spagna, l’ultimo re aragonese di Napoli.

Nel 1503 l'assedio di Ferdinando il Cattolico demolì definitivamente quanto restava delle torri.

Il castello fu allora nuovamente e massicciamente ristrutturato, assumendo la forma che oggi vediamo.

Mutati i sistemi di armamento - dalle armi da lancio e da getto alle bombarde - furono ricostruite le torri ottagonali, ispessite le mura, e le strutture difensive furono orientate verso terra, e non più verso il mare. Sconfitti i francesi per due volte, a Cerignola e sul Garigliano, avvenne la completa conquista dell'intero Regno di Napoli in favore della Spagna.

Durante il regno dei Viceré spagnoli e successivamente dei Borbone il castello fu fortificato ancor più con batterie e due ponti levatoi.

La struttura perse completamente la funzione di residenza reale e dal XVIII secolo anche il titolo di "fabbrica reale", e venne adibito ad accantonamento ed avamposto militare - dal quale gli spagnoli bombardarono la città durante i moti di Masaniello - e a prigione, dove fu recluso fra gli altri il filosofo Tommaso Campanella prima di essere condannato a morte, e più tardi alcuni giacobini, carbonari e liberali fra cui Carlo Poerio, Luigi Settembrini, Francesco de Sanctis.

Durante il periodo del cosiddetto "Risanamento", che cambiò il volto di Napoli dopo l'Unità d'Italia, un progetto elaborato dall'Associazione degli scienziati letterati e artisti nel 1871 prevedeva l'abbattimento del castello per far posto ad un nuovo rione.

Tuttavia quel progetto non fu attuato e l'edificio rimase in possesso del demanio e praticamente in stato di abbandono, fino all'inizio dei restauri nel 1975.

Il Castel dell'Ovo, oggi sede della Direzione Regione per i Beni Culturali e Paesaggistici della Campania, è stata oggetto, nel tempo, di molteplici trasformazioni, le cui tracce sono ancora oggi evidenti.

Unito al Castello dalla parte del mare, il Ramaglietto fu costruito sopra l’antico “ciglio del sole”, dove un tempo esistevano dei mulini a vento.Il viceré Francesco Bonavides conte di Santo Stefano, alla fine del Seicento, ne ordinò la costruzione per difendere il castello dalle flotte nemiche.

Realizzato a più riprese tra il 1691 e il 1693, il fortino era in grado di contenere sino a sessanta pezzi di artiglieria, grazie alla sua notevole estensione verso il mare.

Dal Ramaglietto, attraverso un camminamento che fiancheggia il castello, si giunge all’arco naturale che in passato, aperto sul mare, identificava l’immagine dell’isolotto.

L’arco, crollato durante il regno di Giovanna D’Angiò, fu ricostruito in muratura. La sua ampiezza è oggi leggibile all’interno della Sala Italia.L’unica strada interna attraversa una delle torri ancora visibili, quella di Normandia, costruita per volere di Guglielmo il Malo a difesa del punto più vulnerabile dell’isolotto verso il mare.

La torre, su cui venivano issate le bandiere, poggia su archi in piperno e conserva tracce della merlatura guelfa, inglobata in un rialzamento successivo. Superata la torre, si accede ad uno dei due edifici sacri dell’isolotto, la Chiesa del Salvatore, la cui parte rimasta integra oggi ha un accesso laterale.

La struttura poggia su alte colonne in granito e capitelli di spoglio, di provenienza romana.

All’interno si conservano resti di affreschi tardo bizantini. Della Chiesa di San Pietro, non resta alcuna traccia visibile, ma la presenza di luoghi di culto riporta alla memoria la destinazione religiosa dell’isolotto.

Del complesso monastico abitato da monaci basiliani prima e da suore dell’ordine di Santa Patrizia poi, restano i ‘romitori’, celle scavate nella roccia tufacea. Uniti da un fitto percorso di cunicoli, sono stati riportati alla luce, nella loro interezza, agli inizi del Novecento.

Alcune celle sono semplici cavità scavate nel tufo, altre hanno pareti in muratura e soffitto a volta, probabilmente utilizzate come altari.In alcuni ambienti ci sono tracce di affreschi rudimentali, realizzati su un intonaco più accurato, oggi, quasi illeggibili.

La cella maggiormente decorata è quella di Santa Patrizia. Tra le più suggestive del Castello, la Sala delle Colonne deve il suo nome alle numerose colonne di spoglio riutilizzate nella struttura, poggiante su archi a sesto acuto.

I rocchi, con scanalature a spigolo vivo, sono chiaramente leggibili come parte di colonne di dimensioni maggiori e spiccano nel loro candore marmoreo in contrasto con il giallo del tufo.

Divisa in navate, la sala appare come la struttura di una chiesa, ma con molta probabilità era utilizzata per refettorio dei monaci.

I materiali di spoglio, variamente riutilizzati nelle differenti strutture del castello, richiamano alla mente la magnifica villa, edificata nel I secolo a.C. dal Console romano Lucio Licinio Lucullo.

In prossimità del bastione d’ingresso vi è un ampio locale ricavato nel tufo, che nel corso dei secoli ha assunto il nome di “Carcere della Regina Giovanna”.

L’ambiente, oggi noto come Sala delle Prigioni, si compone di un ampio vano centrale, dal quale si irradiano corridoi che conducono alle finestre aperte sui fronti est e ovest del Castello.Per l’ampiezza del locale e per la forma, è ipotizzabile l’origine come fortificazione del castello.

Successivamente, sotto la dominazione normanna, la Sala delle Prigioni venne impiegata per la custodia dei tesori e dei documenti, tra cui l’archivio segreto dello Stato.

Presso il Castel dell'Ovo vi è anche la sede dell'Istituto Italiano dei Castelli, sezione Campania.

La sede viene aperta solo dietro appuntamento. E' possibile visitare una mostra fotografica permanente sull'architettura fortificata della Campania.

Fonte : Wikipedia, http://www.icastelli.it/ con scheda compilata dal Dott. Andrea Orlando

L'ADDIO AI MONTI
dal capitolo VIII de "I PROMESSI SPOSI"

Stamattina mi sono svegliato con questa lettura che mi rimbalzava nella memoria e sono andata a rileggermela e la propongo anche a Voi sperando di fare cosa gradita.

L'episodio tratta della notte in cui Renzo e Lucia, su indicazione di fra' Cristoforo, abbandonano in barca il paese natale per sfuggire alle grinfie del malvagio don Rodrigo, il quale mira alla mano della fanciulla; questa, rivedendo i propri luoghi cari, che teme di perdere, e il tetro maniero del suo famigerato pretendente, è vinta dallo sconforto e, posati il braccio e la fronte sul bordo della piccola imbarcazione, piange.

Manzoni riporta in modo magistrale, i pensieri della giovine, che fanno riferimento, appunto, ai luoghi che questa teme di non poter più rivedere.

Ecco il testo :


“Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio!

Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso.

Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti.

 Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire, e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa!

Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que’ monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l’immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno!

Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore.

Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa.

Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio!

Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.”

venerdì 20 febbraio 2015

LA CROCE DI GESÙ

Vera Croce è il nome dato alla croce sulla quale, secondo i Vangeli, Gesù fu crocifisso.

Secondo la tradizione cristiana, la Vera Croce venne ritrovata a Gerusalemme nel IV secolo e ivi conservata fino al 1187, quando se ne persero le tracce dopo la conquista della Città Santa da parte di Saladino. In diversi luoghi tuttavia si pretende esistano dei frammenti che si vorrebbe provengano da essa.

Molti storici dubitano che la croce ritrovata da Elena potesse veramente essere la croce di Cristo. I sospetti maggiori derivano dal fatto che la croce sia stata trovata alcuni secoli dopo la morte di Cristo, e che il ritrovamento sia attestato solo da fonti tarde.

È del tutto probabile che la "vera croce" (unica o meno) sia stata costruita nel IV secolo. La maggior parte degli studi moderni confermano che Gesù sia stato crocifisso su una croce di forma e dimensioni tramandate dalla tradizione, proprio per il metodo con cui si svolgeva la crocefissione, la quale avveniva ordinariamente sotto i romani con la forma a noi tramandata dalla tradizione.

Gesù non fu semplicemente inchiodato ad un palo ma ad una croce, in quanto era la croce lo strumento di supplizio romano e Gesù fu sottoposto ad una pena presieduta dai romani i quali usavano sempre la croce nelle loro sentenze ordinarie dell'epoca.

Il racconto del ritrovamento (inventio crucis) potrebbe essere successivo al 337, anno in cui Eusebio di Cesarea scrive la Vita di Costantino, in cui racconta che Costantino I trovò la tomba di Gesù, senza fare alcuna menzione della croce.

In particolare Eusebio ricorda che gli scavi per la scoperta della tomba furono portati avanti da Macario di Gerusalemme per volere di Costantino, il quale aveva avuto un sogno premonitore (luglio 325); la chiesa fu dedicata nel settembre 335, ma non vi è traccia della croce.

Nel 340-345 un pellegrino di Bordeaux, visitando Gerusalemme, afferma l'esistenza del complesso costruito da Costantino (una grande basilica, il martyrium, un atrio chiuso da un triportico costruito attorno alla tradizionale roccia del Calvario, e una chiesa rotonda anastasis che conteneva il sepolcro), ma non cita la croce.

Le Catechesi di Cirillo, però, riferiscono della croce; essendo state scritte tra il 348 e il 350, permettono di datare la creazione del racconto agli anni 340.Socrate Scolastico (nato nel 380 circa) fornisce un resoconto del ritrovamento nella sua Storia ecclesiastica.

Narra come Elena, madre di Costantino I, avesse fatto distruggere il tempio pagano posto sopra al Sepolcro e, riportatolo alla luce, vi ritrovò tre croci e il titulus crucis (il cartello posto sulla croce di Gesù). Secondo il racconto di Socrate, Macario, vescovo di Gerusalemme, fece porre le tre croci una per volta sopra il corpo di una donna gravemente malata.

La donna, miracolosamente, guarì perfettamente al tocco della terza croce, che venne identificata con l'autentica croce di Cristo.

Socrate sostiene che fossero stati ritrovati anche i chiodi della crocefissione, e che Elena li avesse mandati a Costantinopoli, dove furono incorporati nell'elmo dell'imperatore e uno fu trasformato nel morso del proprio cavallo (questo morso sarebbe quello conservato prima nell'antica Basilica di Santa Tecla e, dopo la traslazione del 1548 voluta dal Vescovo Carlo da Forlì, nelDuomo di Milano, a decine di metri d'altezza dal suolo).

Secondo una tradizione (contraddetta da un'analisi recente che ne avrebbe mostrato la composizione d'argento) un altro chiodo dovrebbe circondare l'interno della corona ferrea oggi conservata nel Duomo di Monza.Sozomeno (morto nel 450 circa), nella sua Storia ecclesiastica, fornisce in pratica la stessa versione di Socrate.

In più egli aggiunge che era stato detto (non specifica da chi) che il luogo del sepolcro era stato "rivelato da un ebreo che abitava ad est, e che aveva tratto questa informazione da certi documenti ereditati da suo padre" (lo stesso autore mette però in dubbio l'autenticità di questo aneddoto) e che un morto era stato resuscitato dal tocco della Croce.

Versioni più tarde della vicenda, di tradizione popolare, sostengono che l'ebreo che aveva aiutato Elena si chiamasse Giuda, e che in seguito si fosse convertito al Cristianesimo e avesse preso il nome di Ciriaco.

Teodoreto di Cirro (morto intorno al 457) riferisce quella che era divenuta la versione comune del ritrovamento della Vera Croce:« Quando l'imperatrice scorse il luogo in cui il Salvatore aveva sofferto, immediatamente ordinò che il tempio idolatra che lì era stato eretto fosse distrutto, e che fosse rimossa proprio quella terra sulla quale esso si ergeva.

Quando la tomba, che era stata così a lungo celata, fu scoperta, furono viste tre croci accanto al sepolcro del Signore.

Tutti ritennero certo che una di queste croci fosse quella di nostro Signore Gesù Cristo, e che le altre due fossero dei ladroni che erano stati crocifissi con Lui.

Eppure non erano in grado di stabilire a quale delle tre il Corpo del Signore era stato portato vicino, e quale aveva ricevuto il fiotto del Suo prezioso Sangue.

Ma il saggio e santo Macario, governatore della città, risolse questa questione nella seguente maniera. Fece sì che una signora di rango, che da lungo tempo soffriva per una malattia, fosse toccata da ognuna delle croci, con una sincera preghiera, e così riconobbe la virtù che risiedeva in quella del Signore.

Poiché nel momento in cui questa croce fu portata accanto alla signora, essa scacciò la terribile malattia e la guarì completamente » (Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica, Capitolo XVII).

Con la Croce furono anche rinvenuti i Santi Chiodi, che Elena portò via con sé a Costantinopoli. Secondo Teodoreto, «[Elena] fece trasportare parte della croce di nostro Signore a palazzo.

Il resto fu chiuso in un rivestimento d'argento e affidato al vescovo della città, che fu da lei esortato a conservarlo con cura, affinché potesse essere tramandato intatto ai posteri».Un'altra versione popolare di tradizione siriaca sostituisce Elena con una mitica imperatrice del I secolo di nome Protonike.La conservazione delle reliquie

 Il reliquiario d'argento, custodito nella chiesa dal Vescovo di Gerusalemme, era mostrato periodicamente ai fedeli.

Negli anni intorno al 380 una pellegrina cristiana di nome Egeria, recatasi a Gerusalemme in pellegrinaggio, descrisse la venerazione della Vera Croce in una lunga lettera, l'Itinerarium Egeriae, che mandò alla sua comunità religiosa:« Quindi una sedia viene posta per il vescovo sul Golgota dietro la Croce, che adesso è in piedi; il vescovo prende posto sulla sedia, e davanti a lui viene posta una tavola coperta di un panno di lino; i diaconi stanno in piedi attorno alla tavola, e vengono portati uno scrigno argentato in cui si trova il sacro legno della Croce e la condanna, e posati sul tavolo.

Lo scrigno viene aperto e [il legno] viene preso, e sia il legno che la condanna vengono posati sul tavolo.

Ora, quando viene messo sul tavolo, il vescovo, sedendosi, mantiene con fermezza le estremità del sacro legno, mentre i diaconi fermi tutto attorno lo sorvegliano.

Esso viene così sorvegliato perché è tradizione che le persone, sia i fedeli che i catecumeni, vengano una alla volta, inginocchiandosi davanti al tavolo, per poi baciare il sacro legno e allontanarsi.

E a causa di ciò, non so quando successe, si dice che qualcuno abbia morso e quindi rubato una scheggia del sacro legno, ed è quindi sorvegliato dai diaconi che stanno tutt'attorno, nel caso che uno di quelli che vengono dovesse tentare di farlo di nuovo.

E quando le persone passano una ad una, tutte inchinandosi, toccano la Croce e la condanna, prima con la fronte e poi con gli occhi; poi baciano la Croce e passano, ma nessuno stende la mano per toccarla. Quando hanno baciato la Croce e si sono allontanati, un diacono regge l'anello di Salomone e il corno con cui venivano Consacrati i Re; baciano il corno e guardano l'anello; »

A lungo in precedenza, ma forse non fino alla visita di Egeria, era possibile anche venerare la corona di spine.

Dopo varie peripezie dovrebbe essere finita a Costantinopoli, dove fu molto venerata ma alla fine fu data in pegno al re di Francia in cambio di una grande somma di denaro.

Restò in Francia, e per la sua conservazione è stata costruita la Sainte Chapelle, gioiello del gotico.

A Gerusalemme si poteva venerare anche il palo a cui Cristo fu legato per la flagellazione, e la Sacra Lancia, che gli trafisse il fianco.

Inutile ricordare che di molte reliquie della Passione vi erano duplicati in mezzo mondo.

Il poema in antico inglese Dream of the Rood menziona il ritrovamento della Croce e l'inizio della venerazione delle sue reliquie.Una leggenda medioevale (la Leggenda della Vera Croce) narra che essa fu costruita utilizzando l'Albero di Jesse (padre di re Davide), che è identificato con l'Albero della Vita che cresceva nel Giardino dell'Eden.

Nel 614 il sasanide Cosroe II portò via la Croce come trofeo, quando prese Gerusalemme.

Tredici anni dopo, nel 628, l'imperatore d'OrienteEraclio sconfisse Cosroe e recuperò la Croce, che portò prima a Costantinopoli e poi di nuovo a Gerusalemme.

Attorno al 1009, i cristiani di Gerusalemme nascosero la Croce, e tale rimase fino al suo ritrovamento, avvenuto durante la prima crociata, il 5 agosto 1099 per mano di Arnolfo Malecorne, primo patriarca latino di Gerusalemme, in un momento in cui il morale aveva bisogno di essere tenuto alto.

La reliquia scoperta da Arnolfo era un piccolo frammento di legno incastonato in una croce in oro.

Divenne la più sacra reliquia del regno di Gerusalemme, e non fu soggetta a nessuna delle controversie che avevano seguito in precedenza la scoperta della Sacra Lancia adAntiochia.

Fu conservata nella basilica del Santo Sepolcro sotto la protezione del patriarca latino, che la portava in marcia alla testa dell'esercito prima di ogni battaglia.

Fu portata anche sul campo della battaglia di Hattin nel 1187, ma l'esercito cristiano fu messo in rotta da Saladino e della Vera Croce si persero successivamente le tracce.

Sicuramente fu presa dai musulmani e nelle cronache islamiche si ricorda come Saladino ne rifiutasse la restituzione ai rappresentanti cristiani che gliela chiedevano, ricordando loro come Gesù fosse per l'Islam un grandissimo profeta, degno di essere ricordato.

Frammenti della Vera CroceSecondo la tradizione, prima della scomparsa della Croce, diversi frammenti ne vennero staccati e largamente distribuiti.Oggi il Monastero di Santo Toribio de Liébana, in Spagna, ospita il più grande di questi pezzi, ed è una delle mete di pellegrinaggio più visitate dalla Chiesa Romana Cattolica.

Un altro dei maggiori frammenti della Vera Croce si trova presso l'Abbazia di San Silvestro I Papa di Nonantola (Modena, Italia) ed è visibile oggi presso il Museo Benedettino e Diocesano dell'Abbazia di Nonantola, nella sezione del Tesoro Abbaziale.

Nel 348, in una delle sue Catecheses Cirillo di Gerusalemme sostiene che "tutta la Terra è piena delle reliquie della Croce di Cristo" , e in un'altra "il santo legno della Croce ci porta una testimonianza, visibile tra noi in questo giorno, e che da questo luogo adesso si è diffusa nel mondo intero, per mezzo di coloro che, nella loro fede, ne asportano dei pezzi" .

Il resoconto di Egeria dimostra quanto queste reliquie della crocifissione fossero ritenute preziose. Giovanni Crisostomo riferisce che i frammenti della Vera Croce erano conservati in reliquiari d'oro, "che gli uomini con reverenza portavano sulla loro persona".

Attorno all'anno 455, Giovenale di Gerusalemme, Patriarca di Gerusalemme inviò a Papa Leone I un frammento del "prezioso legno", secondo le Lettere di Papa Leone.

Una parte della Croce fu portata a Roma nel VII secolo da Papa Sergio I, che era di origine Bizantina.Si dice che un'iscrizione del 359, trovata a Tixter, nei dintorni di Sétif, in Mauritania, riportasse, in un elenco di reliquie, un frammento della Vera Croce, secondo una voce delle Roman Miscellanies, X, 441.

Ma la maggior parte delle reliquie più piccole arrivò in Europa da Costantinopoli.

La città fu presa e saccheggiata durante la Quarta Crociata, nel 1204:          « Dopo la conquista della città d Costantinopoli fu trovata una ricchezza inestimabile, gioielli incredibilmente preziosi e anche una parte della Croce di Cristo, che Elena spostò da Gerusalemme e che fu decorata con oro e pietre preziose.

In quel luogo era tenuta in somma ammirazione. Venne scolpita dai presenti vescovi e divisa fra i cavalieri assieme alle altre reliquie preziose; in seguito, al ritorno in patria, fu donata a chiese e monasteri. » (Chronica regia Coloniensis - sub annorum 1238 - 1240. pagina 203).

Alla fine del Medioevo così tante chiese sostenevano di possedere un pezzo della Vera Croce, che Giovanni Calvino affermò ironicamente che tutte queste supposte reliquie avrebbero potuto riempire una nave:« Non c'è un'abbazia così povera da non averne un esemplare [di reliquia della Croce]. In alcuni luoghi se ne trovano grossi frammenti, come nella Santa Cappella, a Parigi, a Polictiers, e a Roma, dove si dice che ne sia stato ricavato un crocifisso di discrete dimensioni. In breve, se tutti i pezzi ritrovati fossero raccolti, formerebbero un grande carico di nave.

Tuttavia i Vangeli mostrano che poteva essere trasportata da un solo uomo. » (Giovanni Calvino, Traité Des Reliques.).

Tuttavia, anche se la frase di Calvino è tuttora presa alla lettera da molti commentatori, e anche se è chiaro che molti dei pezzi esistenti della Vera Croce siano delle contraffazioni create dai mercanti viaggiatori durante il Medioevo, l'affermazione non è corretta. Infatti, nel 1870Rohault de Fleury, nel suo libro Mémoire sur les instruments de la Passion (Memorie sugli strumenti della Passione), stese un catalogo di tutte le reliquie conosciute della Vera Croce, sostenendo che, al contrario di quanto affermato da altri autori, i presunti frammenti della Croce, raccolti insieme, ammonterebbero al volume di soli 0,004 metri cubi.

Rohault calcolò: supponendo che la Croce fosse stata di legno di pino (in base alle sue analisi al microscopio dei campioni) e assegnandole un peso di circa settantacinque chilogrammi, possiamo calcolare il volume originale della croce essere 0,178 metri cubi.

Resta quindi un volume di 0,174 metri cubi di legno ancora dispersi, distrutti o non conteggiati.

In effetti non abbiamo informazioni credibili sulla struttura della croce, che di solito non era in un pezzo unico, ma costituita da un palo (fisso) e da un'asse (mobile) a volte costituita dal chiavistello di una porta; quindi il volume stimato da Rohault potrebbe essere errato.

Questa incertezza deriva dal fatto che abbiamo un'idea insufficiente sulle dimensioni e volume degli strumenti per la crocefissione in epoca romana. In ogni caso 0,004 metri cubi, pari a un cubo di circa 16 cm di lato, oppure a un palo lungo un metro e del diametro di soli 7 cm circa, sono certamente molto meno del volume che la croce poteva avere.

La quantità di legno della croce presente nell'antichità impressionava comunque anche i credenti, e coloro che credevano all'autenticità della reliquia, e se ne davano diverse spiegazioni.

Ad esempio Paolino invoca il miracolo della "reintegrazione delle croce": ovvero, per quanti pezzi e schegge se ne possano togliere, la Vera Croce resta sempre integra. [The Catholic Encyclopaedia, Vol. 4, p. 524].

Quattro schegge della Croce - di dieci frammenti con prove documentate degli Imperatori Bizantini - provenienti da chiese Europee: Santa Croce in Gerusalemme a Roma, Notre Dame de Paris, il Duomo di Pisa e Santa Maria del Fiore - sono stati analizzati al microscopio. "I pezzi vengono tutti da legno di olivo" (William Ziehr, La Croce, Stoccarda 1997, p.63).

Anche la parrocchia di Civitella Casanova in Abruzzo possiede, accuratamente riposte in un reliquiario d'argento, delle reliquie attribuite alla Croce di Cristo.

A Chiaramonte Gulfi (RG) si conservano due frammenti del legno della vera croce uno custodito nella Chiesa di San Vito in un prezioso reliquiario in filigrana di argento e l'altro nella Chiesa Commendale del S.M.O.M. di San Giovanni Battista custodito in un reliquiario di argento, insieme ad altre reliquie, e accompagnato da un documento che ne afferma l'autenticità.

A Gerace (RC) si conserva un piccolissimo frammento della croce di Gesù Cristo in un grande reliquario contenente 100 tessuti dei santiGiovanni Crisostomo ha scritto delle omelie sulla Croce:« I Re togliendosi il diadema prendono le croci, il simbolo della morte del loro salvatore; sulla porpora, la croce; nelle loro preghiere, la croce; sul sacro altare, la croce; in tutto l'universo, la croce. La croce risplende più chiara del sole. »

giovedì 19 febbraio 2015

IL MASCHIO ANGIOINO

La costruzione del Maschio Angioino iniziò nel 1279, sotto il regno di Carlo I d'Angiò, su progetto dell'architetto francese Pierre de Chaule. 
Per la sua posizione strategica il nuovo castello rivestì non solo le caratteristiche di una residenza reale, ma anche quelle di una fortezza. 
La costruzione del Maschio Angioino iniziò nel 1279, sotto il regno di Carlo I d'Angiò, su progetto dell'architetto francese Pierre de Chaule. 

Per la sua posizione strategica il nuovo castello rivestì non solo le caratteristiche di una residenza reale, ma anche quelle di una fortezza. 

Fin dall'inizio esso venne chiamato "Castrum Novum" per distinguerlo da quelli più antichi dell'Ovo e Capuano. 

Durante il regno di Roberto d'Angiò il Castello divenne un centro di cultura dove soggiornarono artisti, medici e letterati fra cui Giotto, Petrarca e Boccaccio. Agli Angioini successero gli Aragonesi con Alfonso I, che seguendo la scelta dei predecessori, fissò la sua dimora reale in Castel Nuovo iniziandone i lavori di ricostruzione e facendo innalzare all'esterno, fra la Torre di Mezzo e quella di Guardia, il grandioso Arco di Trionfo per celebrare il suo vittorioso ingresso nella città di Napoli. 

Con gli Aragonesi si assiste al passaggio dal medioevale castello-palazzo alla fortezza di età moderna, adeguata alle nuove esigenze belliche e la zona intorno al Castello perde il carattere residenziale che aveva con gli Angioini. La struttura della costruzione aragonese risulta senz'altro più massiccia rispetto a quella angioina e rispecchia abbastanza fedelmente quella attuale, scaturita dai lavori di risanamento dei primi anni di questo secolo. 

Il monumento presenta una pianta trapezoidale formata da una cortina di tufo in cui si inseriscono cinque torri cilindriche (di cui quattro di piperno ed una di tufo) poggianti su un basamento in cui si aprono dei cammini di ronda. L'area del cortile, che ricalca quella angioina, è formata da elementi catalani come il porticato ad arcate ribassate e la scala esterna in piperno, opera dell'architetto maiorchino Guglielmo Sagrera, che conduce alla Sala dei Baroni e conferisce a questo angolo della corte il caratteristico aspetto dei patii spagnoli. 

Alla fine del XV secolo i Francesi subentrarono agli Aragonesi; tale presenza non durò per molto tempo, in quanto i Francesi furono sostituiti a loro volta dai viceré spagnoli ed austriaci. Durante il periodo vicereale (1503-1734), le strutture difensive del castello, adibito ad un uso prettamente militare, vennero ulteriormente modificate. Con l'avvento di Carlo III di Borbone che sconfisse l'imperatore Carlo VI nel 1734, il castello venne circondato in varie riprese da fabbriche di ogni genere, depositi ed abitazioni. 

Nel primo ventennio del XX secolo iniziarono a cura del Comune i lavori di isolamento del castello dalle costruzioni contigue (vedi video di Bernardo Leonardi); la validità di questo intervento scaturiva dal riconoscimento del valore storico e monumentale della fortezza e dalla necessità del recupero complessivo della piazza antistante. 

Attualmente il complesso monumentale viene destinato ad un uso culturale ed è, tra l'altro, la sede del Museo Civico. L'itinerario museale si articola tra la Sala dell'Armeria, la Cappella Palatina o di Santa Barbara, il primo ed il secondo piano della cortina meridionale a cui si aggiungono la Sala Carlo V e la Sala della Loggia destinate ad ospitare mostre ed iniziative culturali. 


Il Castel Nuovo o Maschio Angioino si presenta di pianta irregolarmente trapezoidale ed è formato da cinque grandi torri cilindriche, quattro rivestite di piperno e una in tufo, e coronate da merli su beccatelli. Le tre torri sul lato rivolto verso terra, dove si trova l'ingresso, sono le torri "di San Giorgio", "di Mezzo" e "di Guardia" (da sinistra a destra), mentre le due sul lato rivolto verso il mare prendono il nome di torre "dell'Oro" e di torre "di Beverello" (ancora da sinistra a destra). Il castello è circondato da un fossato e le torri si elevano su grandi basamenti a scarpata, nei quali la tessitura dei blocchi in pietra assume disegni complessi, richiamando esempi catalani.

Sul lato del castello rivolto al mare si affaccia la parete di fondo della "Cappella palatina", o chiesa di "San Sebastiano" o di "Santa Barbara", unico elemento superstite del castello angioino trecentesco, sebbene danneggiata nel terremoto del 1456 e in seguito restaurata. La facciata sul cortile interno presenta un portale rinascimentale con rilievi di Andrea dell'Aquila e di Francesco Laurana e un rosone, rifatto in epoca aragonese.

All'interno, illuminato da alte e strette finestre gotiche, si conservano solo scarsi resti dell'originaria decorazione affrescata, opera di Maso di Banco e un ciborio di Iacopo della Pila, datato alla fine del Quattrocento. Una scala a chiocciola accessibile da una porta a sinistra consentiva di salire alla "sala dei Baroni". L'interno fu affrescato da Giotto verso il 1330 ma il contenuto di questo ciclo d'affreschi è quasi interamente perduto anche se rimane descritto nei versi di un autore anonimo in una raccolta di sonetti del 1350 circa.

Tra le due torri che difendono l'ingresso (torri "di Mezzo" e "di Guardia") venne eretto un arco di trionfo in marmo, destinato a celebrare il ricordo dell'ingresso di re Alfonso nella capitale. L'opera trae ispirazione dagli archi di trionfo romani. Un arco inferiore, inquadrato da colonne corinzie binate, presenta sui fianchi del passaggio rilievi che raffigurano Alfonso tra i congiunti, i capitani e i grandi ufficiali del regno; sull'attico il rilievo raffigurante il Trionfo di Alfonso.

Un secondo arco si sovrappone al primo, con colonne ioniche binate, e doveva ospitare la statua del re. Sull'attico le statue delle quattro virtù (Temperanza, Giustizia, Fortezza e Magnanimità), collocate entro nicchie, sormontate da un coronamento a forma di timpano semicircolare, con figure di fiumi e in cima la statua di San Michele. Le sculture sono attribuite ad importanti artisti del tempo: Guillem Sagrera, Domenico Gagini, Isaia da Pisa e Francesco Laurana.

La "Sala dei Baroni" è la sala principale del Maschio Angioino. Prende il suo nome dal fatto che nel 1487 alcuni dei baroni che congiurarono contro Ferrante I d'Aragona furono da lui invitati in questa sala per celebrare le nozze della nipote. In realtà era una trappola: i baroni furono arrestati e alcuni di loro messi a morte.

Collocata all'angolo della torre "di Beverello", tra il lato settentrionale e il lato orientale, rivolto al mare, l'ampia sala (26 m x 28 m), opera di Guillem Sagrera, è coperta da una volta ottagonale poggiante su grandi strombature angolari e munita di costoloni che formano un disegno a stella. Sul lato rivolto verso il mare, tra due finestre crociate aperte verso l'esterno, si trova un grande camino, sormontato da due palchi per musicisti.

Tra le opere d'arte ancora presenti nella sala c'è il marmoreo portale bifronte di Domenico Gagini, due bassorilievi sui quali sono raffigurati il corteo trionfale di Alfonso d'Aragona e l’ingresso del Re nel castello, un portale catalano attraverso il quale si accede alla Camera degli Angeli. Una citazione a parte merita la scala a chiocciola in piperno, oggi inagibile, che conduce alle terrazze superiori. Il pavimento della Sala era decorato con maiolica invetriata bianca e azzurra, provenienti da Valencia.

La sala, sebbene danneggiata da un incendio nel 1919, è rimasta tuttavia l'unica del castello che conserva ancora il suo antico aspetto. Fino al 2006 ha ospitato le riunioni del consiglio comunale di Napoli.

Naturalmente come ogni castello che si rispetti, il Maschio Angioino dispone di ampi sotterranei e di tetre prigioni; c'è poi una cella detta "Cella del Coccodrillo" che, racconta la leggenda, si cibava dei nemici dei regnanti e degli sfortunati amanti della regina Giovanna.

Fonti : Comune di Napoli con testi di Rosalba Manzo; http://www.icastelli.it/ con testi di Cetty Giuffrida



LA SCOMMESSA DI BLAISE PASCAL

Siamo di fronte a uno dei piú famosi pensieri di Pascal, che ha fatto tanto discutere per la sua originalità e la sua audacia. Lo stesso manoscritto pascaliano è molto tormentato, pieno di aggiunte e di cancellature. Comunque il senso è chiaro: la fede coinvolge l'esistenza. E, a livello esistenziale, i ragionamenti sono scarsamente efficaci: nessun argomento può essere convincente se chi ascolta non vuole essere convinto. Ma la ragione può avere una funzione anche al di là del mondo delle certezze, cioè nel campo del possibile e del probabile. Il cavaliere di Méré, un libertino amante del gioco ha chiesto al suo amico Pascal di risolvere problemi di probabilità legati alle puntate nel gioco d'azzardo: la risposta di Pascal è l'elaborazione di una teoria della probabilità, fondata su calcoli matematici che, se applicati alla questione dell'esistenza di Dio, possono risultare convincenti anche per coloro ai quali Dio non ha fatto il dono della fede. Nella dialettica fra infinito e nulla l'uomo è costretto a scegliere, e la scelta può voler dire rischiare la vita eterna.

Pascal, Pensieri S. 164; B. 233

164. Infinito, nulla. La nostra anima vien gettata nel corpo, dove trova numero, tempo, dimensioni. Essa vi
ragiona sopra, e chiama tutto ciò natura, necessità, e non può credere altro.
L'unità aggiunta all'infinito non lo accresce menomamente, non piú che la misura di un piede a una misura infinita. Dinanzi all'infinito, il finito si annichila e diventa un puro nulla. Cosí il nostro spirito davanti a Dio e la nostra giustizia davanti alla giustizia divina.
Tra la nostra giustizia e quella di Dio non c'è una sproporzione cosí grande come tra l'unità e l'infinito.
La giustizia di Dio dev'essere immensa come la sua misericordia. Ora, la giustizia verso i reprobi è meno immensa e deve urtarci meno della misericordia verso gli eletti.
Noi sappiamo che esiste un infinito, e ne ignoriamo la natura. Dacché sappiamo che è falso che i numeri siano finiti, è vero che c'è un infinito numerico. Ma non sappiamo che cosa è: è falso che sia pari, è falso che sia dispari, perché, aggiungendovi l'unità, esso non cambia natura. Tuttavia, è un numero, e ogni numero è pari o dispari (vero è che ciò s'intende di ogni numero finito). Perciò si può benissimo conoscere che esiste un Dio senza sapere che cos'è.
Forse che non c'è una verità sostanziale, dacché vediamo tante cose che non sono la stessa verità?
Noi conosciamo, dunque, l'esistenza e la natura del finito, perché siamo finiti ed estesi come esso. Conosciamo l'esistenza dell'infinito e ne ignoriamo la natura, perché ha estensione come noi, ma non limiti come noi. Ma non conosciamo né l'esistenza né la natura di Dio, perché è privo sia di estensione sia di limiti.
Tuttavia, grazie alla fede ne conosciamo l'esistenza, nello stato di gloria ne conosceremo la natura. Ora, ho già dimostrato che si può benissimo conoscere l'esistenza di una cosa, senza conoscerne la natura.
Parliamo adesso secondo i lumi naturali.
                Se c'è un Dio, è infinitamente incomprensibile, perché, non avendo né parti né limiti, non ha nessun rapporto con noi. Siamo, dunque, incapaci di conoscere che cos'è né se esista. Cosí stando le cose, chi oserà tentare di risolvere questo problema? Non certo noi, che siamo incommensurabili con lui.
                Chi biasimerà allora i cristiani di non poter dar ragione della loro credenza, essi che professano una religione di cui non possono dar ragione? Esponendola al mondo, dichiarano che è una stoltezza, stultitiam; e voi vi lamentate che non ne diano le prove! Se la provassero, mancherebbero di parola: solo difettando di prove, non difettano di criterio.
                “Sta bene, ma, sebbene ciò serva a scusare coloro che la presentano come tale, e li assolva dalla taccia di presentarla senza ragione, non scusa per coloro che la accolgono”.
                Esaminiamo allora questo punto, e diciamo: “Dio esiste o no?” Ma da qual parte inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c'è di mezzo un caos infinito. All'estremità di quella distanza infinita si gioca un giuoco in cui uscirà testa o croce. Su quale delle due punterete? Secondo ragione, non potete puntare né sull'una né sull'altra; e nemmeno escludere nessuna delle due. Non accusate, dunque, di errore chi abbia scelto, perché non ne sapete un bel nulla.
                “No, ma io li biasimo non già di aver compiuto quella scelta, ma di avere scelto; perché, sebbene chi sceglie croce e chi sceglie testa incorrano nello stesso errore, sono tutte e due in errore: l'unico partito giusto è di non scommettere punto”.
                Sí, ma scommettere bisogna: non è una cosa che dipenda dal vostro volere, ci siete impegnato. Che cosa sceglierete, dunque? Poiché scegliere bisogna, esaminiamo quel che v'interessa meno. Avete due cose da perdere, il vero e il bene, e due cose da impegnare nel giuoco: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha da fuggire due cose: l'errore e l'infelicità. La vostra ragione non patisce maggior offesa da una scelta piuttosto che dall'altra, dacché bisogna necessariamente scegliere. Ecco un punto liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate in favore dell'esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare, che egli esiste.
                “Ammirevole! Sí, bisogna scommettere, ma forse rischio troppo”.
                Vediamo. Siccome c'è eguale probabilità di vincita e di perdita, se aveste da guadagnare solamente due vite contro una, vi converrebbe già scommettere. Ma, se ce ne fossero da guadagnare tre, dovreste giocare (poiché vi trovate nella necessità di farlo); e, dacché siete obbligato a giocare, sareste imprudente a non rischiare la vostra vita per guadagnarne tre in un giuoco nel quale c'è eguale probabilità di vincere e di perdere. Ma qui c'è un'eternità di vita e di beatitudine. Stando cosí le cose, quand'anche ci fosse un'infinità di casi, di cui uno solo in vostro favore, avreste pure sempre ragione di scommettere uno per avere due; e agireste senza criterio, se, essendo obbligato a giocare, rifiutaste di arrischiare una vita contro tre in un giuoco in cui, su un'infinità di probabilità, ce ne fosse per voi una sola, quando ci fosse da guadagnare un'infinità di vita infinitamente beata. Ma qui c'è effettivamente un'infinità di vita infinitamente beata da guadagnare, una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, e quel che rischiate è qualcosa di finito. Questo tronca ogni incertezza: dovunque ci sia l'infinito, e non ci sia un'infinità di probabilità di perdere contro quella di vincere, non c'è da esitare: bisogna dar tutto. E cosí, quando si è obbligati a giocare, bisogna rinunziare alla ragione per salvare la propria vita piuttosto che rischiarla per il guadagno infinito, che è altrettanto pronto a venire quanto la perdita del nulla.
                Invero, a nulla serve dire che è incerto se si vincerà, mentre è certo che si arrischia; e che l'infinita distanza tra la certezza di quanto si rischia e l'incertezza di quanto di potrà guadagnare eguaglia il bene finito, che si rischia sicuramente, all'infinito, che è incerto. Non è cosí: ogni giocatore arrischia in modo certo per un guadagno incerto; e nondimeno rischia certamente il finito per un guadagno incerto del finito, senza con ciò peccare contro la ragione. Non c'è una distanza infinita tra la certezza di quanto si rischia e l'incertezza della vincita: ciò è falso. C'è, per vero, una distanza infinita tra la certezza di guadagnare e la certezza di perdere. Ma l'incertezza di vincere è sempre proporzionata alla certezza di quanto si rischia, conforme alla proporzione delle probabilità di vincita e di perdita. Di qui consegue che, quando ci siano eguali probabilità da una parte e dall'altra, la partita si gioca alla pari, e la certezza di quanto si rischia è eguale all'incertezza del guadagno: tutt'altro, quindi, che esserne infinitamente distante! E, quando c'è da arrischiare il finito in un giuoco in cui ci siano eguali probabilità di vincita e di perdita e ci sia da guadagnare l'infinito, la nostra proposizione ha una validità infinita. Ciò è dimostrativo; e, se gli uomini son capaci di qualche verità, questa ne è una.
                “Lo riconosco, lo ammetto. Ma non c'è mezzo di vedere il di sotto del giuoco?”.
                Sí, certamente, la Scrittura e il resto.
                “Sta bene. Ma io ho le mani legate, e la mia bocca è muta; sono forzato a scommettere, e non sono libero; non mi si dà requie, e sono fatto in modo da non poter credere. Che volete, dunque, che faccia?”
                È vero. Ma riconoscete almeno che la vostra impotenza di credere proviene dalle vostre passioni, dacché la ragione vi ci porta, e tuttavia non potete credere. Adoperatevi, dunque, a convincervi non già con l'aumento delle prove di Dio, bensí mediante la diminuzione delle vostre passioni. Voi volete andare alla fede, e non ne conoscete il cammino; volete guarire dall'incredulità, e ne chiedete il rimedio: imparate da coloro che sono stati legati come voi e che adesso scommettono tutto il loro bene: sono persone che conoscono il cammino che vorreste seguire e che son guarite da un male di cui vorreste guarire. Seguite il metodo con cui hanno cominciato: facendo cioè ogni cosa come se credessero, prendendo l'acqua benedetta, facendo dire messe, ecc. In maniera del tutto naturale, ciò vi farà credere e vi impecorirà.
                “Ma è proprio quel che temo”.
                E perché? che cosa avete da perdere? Ma, per dimostrarvi che ciò conduce alla fede, sappiate che ciò diminuirà le vostre passioni, che sono i vostri grandi ostacoli.
                Fine di questo discorso. Ora, qual male vi capiterà prendendo questo partito? Sarete fedele, onesto, umile, riconoscente, benefico, amico sincero, veritiero. A dir vero, non vivrete piú nei piaceri pestiferi, nella vanagloria, nelle delizie; ma non avrete altri piaceri? Vi dico che in questa vita ci guadagnerete; e che, a ogni nuovo passo che farete in questa via, scorgerete tanta certezza di guadagno e tanto nulla in quanto rischiate, che alla fine vi renderete conto di avere scommesso per una cosa certa, infinita, per la quale non avete dato nulla.
                “Oh! codesto discorso mi conquista, mi esalta, eccetera”.
                Se questo discorso vi piace e vi sembra valido, sappiate che è fatto da un uomo che si è messo in ginocchio prima e dopo, per pregare quell'Essere infinito e senza parti, al quale sottomette tutto il suo essere, affinché si sottometta anche il vostro, per il vostro bene e per la sua gloria, e che, quindi, la sua forza si accorda con questa umiliazione.

(B. Pascal, Pensieri, a cura di P. Serini, Einaudi, Torino, 1967, pagg. 65-71)