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giovedì 9 aprile 2015

MÒNARCHIA di DANTE

La "Mònarchia" è il titolo (e non De Monarchia, estraneo alla tradizione manoscritta) di un trattato in tre libri di argomento politico, scritto da Dante in lingua latina. 

Il titolo non si riferisce genericamente a ogni stato in cui sia sovrano un re; si riferisce invece all'Impero: quell'unico principato che sta sopra tutti gli altri, relativamente a ciò che ha principio e fine nel tempo (cfr. Mn I II 2). 

La Monarchia venne infatti composta con l'intento di difendere i diritti dell'Impero contro le pretese della Chiesa e l'ostilità dei guelfi, dimostrando anzitutto a coloro che volevano la distruzione dell'Impero che esso era necessario per la felicità del genere umano.

In secondo luogo opponendo a coloro che indebitamente aspiravano a sostituirsi all'imperatore, che soltanto il romano Impero era tale di diritto, perché voluto dalla divina Provvidenza; e finalmente, contro la dottrina ierocratica che riservava alla Chiesa il diritto di ratificare con la confirmatio la scelta degli elettori, conferendo legalmente all'eletto la corona di rex Romanorum e il diritto di amministrare l'Impero, Dante sostiene che l'imperatore riceve la sua autorità direttamente da Dio, e non dalle mani del pontefice. 

Ciò posto, Dante conclude il trattato chiarendo quale debba essere il corretto rapporto tra i due poteri: egli prendeva così posizione entro il quadro di una controversia secolare, che negli anni immediatamente precedenti aveva raggiunto uno dei suoi punti culminanti con la lotta tra Filippo il Bello e Bonifacio VIII. 

Dante poté attingere gli argomenti della propria discussione, e le linee
fondamentali della soluzione che egli prospettava, da alcuni degli scritti polemici che numerosi vennero allora composti a sostegno delle opposte dottrine: 

il De Potestate regia et papali di Giovanni da Parigi, la glossa anonima alla bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII, la Determinatio compendiosa de iurisdictione Imperii attribuita a Tolomeo da Lucca, il De Regimine Christiano di Giacomo da Viterbo: tanto per limitarci ad alcune delle opere che più sicura traccia lasciarono nella Monarchia. 

Impostando il suo trattato in modo del tutto diverso da certi precedenti apologeti dell'Impero. 

Come Enghelberto d'Admont ad esempio, Dante affrontava la discussione con argomenti filosofici, teologici, giuridici, tutto serrando entro le regole del sillogismo, con un procedimento scolastico rigidamente osservato che inserisce la Monarchia fra gli scritti volti a negare la dottrina della potestas directa in temporalibus, agl'inizi del Trecento decisamente riaffermata da Bonifacio VIII e da Clemente V, e sviluppata dai teologi ierocratici in organici trattati sulla Chiesa e sul primato papale. 

Dante riafferma dunque la piena eguaglianza dell'imperatore e del papa per quanto riguarda l'origine del loro potere e la funzione che essi assolvono: tanto il papa che l'imperatore sono eletti per ispirazione divina; papa e imperatore hanno, tosto che vengono eletti, la pienezza del loro potere; il potere dell'imperatore viene direttamente da Dio, al pari di quello del papa; il papa e l'imperatore sono le due guide indispensabili per l'umanità sulla via della felicità terrena e della felicità eterna. 

Ma nelle ultime righe del trattato Dante afferma che siffatta parità tra i due poteri, relativamente all'origine indipendente della loro autorità, non significa che l'imperatore non sia parzialmente soggetto al papa (in aliquo Romano Pontifici non subiaceat, III XV 17). 

È sembrato ad alcuni che quest'ultima affermazione contraddica ciò che precede; e persino c'è stato chi ha pensato a una tarda aggiunta di Dante, pentitosi di quanto aveva detto; mentre qualcuno ha cercato di diminuire l'importanza dell'affermazione restringendone il significato a un semplice ossequio. 

Ma di tutt'altra opinione certi interpreti, persuasi che, nel quadro delle varie soluzioni proposte intorno al rapporto tra i due poteri, Dante s'inserisca tra coloro che, mantenendosi distanti dalle posizioni radicali del nazionalismo francese e dall'imperialismo ghibellino, tentarono la via moderata di armonizzare le esigenze dell'idea imperiale con quelle della supremazia del potere spirituale, senza fermarsi alla semplice coordinazione dei due poteri. 

Un Dante nemico, dunque, della potestas directa in temporalibus, ma non di un rapporto fondato sul principio della superiorità del fine spirituale dell'uomo nei confronti del suo fine temporale.

Fonte : ( http://www.treccani.it/enciclopedia/monarchia_(Enciclopedia-Dantesca)/      di Pier Giorgio Ricci  )

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Iniziamo a Leggerci il primo Capitolo del primo Libro...


1 A tutti gli uomini, che una forza soprannaturale ha improntato all'amore della verità, questo spetta sopra ogni cosa: come essi si sono arricchiti dall'opera degli antichi, così a loro volta proiettare l'opera propria verso la posterità, tanto che questa trovi in essi di che arricchirsi. 

2 Stia certo di essere lontano dalla propria missione chi, formatosi agli insegnamenti ricevuti dalla società, non si cura di portare qualche contributo al bene della comunità: l'uomo non è pianta che, cresciuta lungo un corso d'acqua, fruttifica alla sua stagione, ma piuttosto voragine di morte che sempre inghiotte, non riversa mai fuori. 

3 A questo dunque ho pensato più volte fra me, e, per non essere accusato un giorno della colpa di chi sotterra il talento ricevuto, desidero non soltanto mostrare turgide gemme, ma dare frutti al bene comune e rivelare verità inesplorate agli altri. 

4 Che pro se uno si rimettesse a dimostrare un teorema di Euclide, o cercasse di additare di nuovo la felicità additata da Aristotele o tornasse a prendere le difese della vecchiaia già prese da Cicerone? Nessuno certo; sazietà piuttosto recherebbe una simile tediosa ridondanza. 

5 Ora, tra molte verità inesplorate e pure giovevoli, il più utile e insieme il meno afferrabile è il concetto di Monarchia temporale, che tutti lasciano da parte perché non ha un fine immediato di lucro: questo concetto è mio proposito di svolgere dal suo mistero, sia per essere utile all'umanità con le mie elucubrazioni, sia per essere il primo a cogliere per mia gloria la palma di tanto cimento. 

6 Certamente mi assumo un compito arduo al di là delle mie forze, confidando non tanto nelle mie possibilità quanto nella luce di quella Provvidenza che a tutti dispensa largamente doni senza mortificare. 

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